Francesco Caremani, più di un gioco
Intervista L'autore racconta il suo libro sul calcio: «Chiedi alla polvere», edito da Bradipolibri
Intervista L'autore racconta il suo libro sul calcio: «Chiedi alla polvere», edito da Bradipolibri
Il calcio è passione e tifo. Ma il calcio è soprattutto «storie di donne e uomini, di bambine e ragazzi che giocano a calcio, interpretandolo in un quadro più ampio che è quello della vita e degli altri fuori di sé, per non rendere vano il passaggio terreno, riempiendolo di gesti e poi di emozioni, suggestioni, gratitudine, impegno sociale ancor prima che sportivo». Questo è ciò che racconta Francesco Caremani nel suo libro Chiedi alla polvere. Quando il calcio non è solo un gioco (Bradipolibri editore, euro 18).
Caremani, perché dobbiamo chiedere alla polvere?
Perché è lì che è nato e nasce il calcio. Nei campi polverosi di periferia e dei quartieri meno abbienti, una polvere che diventa fango quando piove, ma come diceva Maradona «la pelota no se mancha», il pallone non si macchia. In quella polvere si mescola tutto, vita vissuta, sogni, vittorie, sconfitte e rivincite, non solo sportive. Al di là della citazione dotta del titolo, la mia non è letteratura, sono un giornalista che scrive libri e che ama il calcio in tutte le sue forme: qui ho voluto raccontare quello «primordiale». E poi ricordandoci che questo calcio può esistere anche senza quello d’élite, ma quest’ultimo non può esistere senza tutti i campioni cresciuti nei campi pieni di polvere.
Che storie sono quelle che lei racconta?
Racconto storie di calcio sociale, dove il calcio non è il fine ma il mezzo: per il ragazzo amputato, che continua a sentirsi un calciatore; per il migrante, che dimentica per novanta minuti di non avere documenti e trova nella squadra un gruppo nel quale riconoscersi; per le ragazze pakistane, che devono nascondersi dagli uomini per giocare ed emanciparsi. Alcune di queste storie le ho trovate in presa diretta viaggiando, come in Argentina nel 2015, altre le ho scovate in Rete e le ho verificate e approfondite grazie ai colleghi stranieri con cui sono in contatto da anni.
Si tratta quindi di un viaggio intorno al mondo alla ricerca di un calcio che non è solo gioco, ma anche cosa?
Rivincita, seconda possibilità, emancipazione. Come tante altre cose, anche il calcio siamo abituati a pensarlo come qualcosa di scontato, qualcosa che abbiamo sempre avuto, che abbiamo potuto praticare senza rischi o pericoli. Invece, nel mondo, ci sono condizioni nelle quali giocare a calcio è un rischio, è un pericolo, è un atto di coraggio, soprattutto quando declinato al femminile. E, visto che è vita vera, ci sono storie che finiscono bene, altre che finiscono male e altre ancora interlocutorie.
Due storie che racconta nel libro a cui è particolarmente legato?
La prima è «La coppa delle virtù», scovata, è proprio il caso di dirlo, durante un’escursione sulle Ande, iniziata con il bacio di un ciuchino e finita nel piccolo ospedale di San Antonio de los Cobres (Argentina), a 3.700 metri di altezza: il mio limite naturale. In quella giornata ho scoperto il Colegio Albergue de Montana Numero 8214 «El Alfarcito» fondato da padre Chifri, il quale ha dato vita a un torneo calcistico denominato «Copa de las Virtudes», per i ragazzi di 13-14 anni che sono alla fine delle medie. Trasmettendo così quei valori, che padre Chifri aveva imparato a Buenos Aires giocando a rugby, agli adolescenti, i quali troppo spesso sono attratti dalla violenza e dal bullismo. Il torneo interessa tutte le scuole della provincia di Salta che desiderano partecipare. La cosa più interessante non sono le partite ma gli incontri a latere, dei seminari in cui si affrontano le problematiche adolescenziali e si cerca di trasferire ai giovani saltenos le virtù umane di cui c’è un grande bisogno, soprattutto in posti come la Quebrada del Toro, dove la vita quotidiana è dura e rischia di seccare i fiori che nascono spontaneamente nel cuore dei ragazzi e delle ragazze.
La seconda storia?
È quella del «Diya Women’s Football Club» di Karachi, in Pakistan, una società fondata per insegnare calcio alle ragazze, soprattutto a quelle delle baraccopoli che affollano la periferia della città, ma al tempo stesso per fare crescere in loro l’autostima e la consapevolezza di dovere e poter lottare per conquistarsi il proprio posto nella vita, nel calcio se possibile, sicuramente nel lavoro.
Restando in tema di calcio femminile, ma soprattutto della tenacia, lei racconta anche quella delle ragazze di Za’atari, in Giordania…
Za’atari (o Zaatari) è un campo profughi giordano al confine con la Siria. Una città di 82.000 persone, il 54 per cento bambini e bambine, con scuole, un mercato e tutti i problemi di un campo profughi che in poco tempo è cresciuto a dismisura. A Za’atari si gioca anche a calcio, grazie all’iniziativa di varie associazioni e ong, più o meno legate ai progetti della Fifa e di altre organizzazioni sportive per far sì che il football sia una disciplina che, da una parte, possa dare ai ragazzi l’opportunità di svagarsi e, dall’altra, diventi anche un momento di formazione che lasci un segno del suo passaggio. Sono molti gli allenatori preparati che frequentano Za’atari e alcuni di loro hanno interpretato questo progetto come una sfida, arrivando a organizzare un torneo di sole ragazze: giocano perché è proibito, giocano per sentirsi vive, giocano perché così fanno tutte le ragazze del mondo; anche se il mondo è altrove e Za’atari è solo un puntino sulla carta geografica..
Nel libro c’è spazio anche per via Corelli a Milano. Qui cosa succede?
Succede che l’associazione NoWalls ha dato vita a una scuola d’italiano e di formazione professionale, accompagnando i ragazzi nei percorsi burocratici che li vedono protagonisti per la loro condizione di richiedenti asilo e per la ricerca di una vita migliore, arrivando a fondare una squadra di calcio. I ragazzi che giocano vengono in particolare da Guinea, Mali, Nigeria, Senegal, Gambia e Togo, ma la formazione cambia in continuazione: tra chi ha ottenuto lo status di rifugiato politico, sempre più difficile, e chi è sbarcato da poco in Italia.
Quando si arriva alla fine del libro, più che alla polvere verrebbe da dire «Chiedi alle stelle invisibili»…
Una bellissima definizione e un assist perfetto, perché mi permette di dire che tutto ciò che come giornalisti ignoriamo, spesso volutamente, diventa invisibile. Ogni disciplina, ogni movimento vive, cresce e prospera se è raccontato. Le mie, alla fine, sono storie che tutti potevano scovare, io ho avuto solamente la fortuna di metterle insieme e di dargli un senso e un significato più ampio.
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