Giunto alla XXVI edizione e consacrato da prestigiosi vincitori delle precedenti, Fabrizio Plessi e Ibrahim Mahama tra gli altri, il premio Pascali viene assegnato quest’anno a Francesco Arena (1978), artista dalla carriera internazionale e pugliese per origine, essendo nato a Torre Santa Susanna, e per attività, visto che vive e lavora a Cassano delle Murge. Si tratterà anche di una prima volta, poiché l’esposizione uscirà dallo spazio fisico della Fondazione Pascali e si proporrà come mostra diffusa coinvolgendo gran parte della città di Polignano a mare e riconfigurandosi come intervento di arte pubblica a cura di Bruna Roccasalva, direttrice artistica della Fondazione Furla.
Lo storico dell’arte Francesco Guzzetti e la curatrice della Tate Modern Nicoletta Lambertucci, membri della giuria del premio (presieduto da Giuseppe Teofilo) hanno ritenuto che il lavoro di Arena sia in grado di «raggiungere un equilibrio perfetto nel rapporto tra l’opera e l’essere umano». Abbiamo rivolto alcune domande all’artista che inaugurerà oggi la personale Francesco Arena. 30 altalene, alle ore 19 in Largo Gelso, a Polignano a Mare.

La giuria ha riconosciuto «la capacità di ripensare i codici della scultura attraverso una pratica che si apre a contaminazioni con ambiti diversi pur restando radicata nella tradizione scultorea, è una testimonianza esemplare di come questo linguaggio sia in grado di rinnovarsi continuamente». È un passaggio interessante perché il linguaggio scultoreo, a differenza della pittura, non è mai entrato apertamente in crisi nell’ultimo secolo…
La scultura non è mai entrata in crisi perché muta facilmente, è un altro corpo e così come il nostro corpo è aperta ai cambiamenti. La scultura si adatta al mondo che la circonda, ne prende l’impronta restituendola trasformata, occupa lo spazio ma può anche crearlo, può essere resistente o scomparire con una secchiata d’acqua. La sua indefinizione è anche  la sua forza.

Cosa ci può anticipare dell’installazione «30 altalene», che sarà diffusa per tutta la città di Polignano?
Il titolo racconta l’opera, si tratta di trenta altalene diffuse per tutta la città, dalla scogliera a sud sino alla periferia e al centro storico, le sedute delle altalene sono in bronzo e ognuna reca incisa una frase generosamente concessa da un autore: scrittrici, filosofi, critici… sono frasi che parlano di tante cose, alcune leggere come piume, altre pesanti come pietre. Chiunque potrà dondolarsi su queste altalene, seduto su una di queste frasi.

Si può considerare un lavoro di arte pubblica? In che modo la collocazione nello spazio della città modifica il suo lavoro?
Quando un’opera è collocata in uno spazio pubblico deve rapportarsi a un ambiente che non è quello protetto dell’arte, può essere accettata o respinta. In questo caso, l’opera è nello spazio pubblico ed è a disposizione di tutti, anzi richiede quaqlcuno che la «agisca». È stata pensata per questo, non a caso sono trenta altalene e non una; inoltre l’opera è finanziata dalla Regione Puglia e resterà di proprietà della Regione, quindi della collettività.

Come si esce sempre rinnovati dalla routine produci-esponi-crepa? O lei non avverte questo pericolo? A cosa lavorerà dopo la mostra di Polignano?
Ci sono opere che vengono realizzate in studio e magari ci restano per anni prima di essere esposte, mentre altre volte lavoro per un luogo preciso o per una data mostra e però c’è sempre qualcosa di diverso da fare, un materiale che richiede di rapportarsi con nuovi artigiani, un problema tecnico da risolvere o un viaggio da fare per vedere un posto. Non avverto questa routine, anzi è una continua scoperta, un continuo cambiamento. In autunno presentiamo al pubblico un’opera molto impegnativa realizzata in una foresta a Khao Yai, a nord di Bangkok, alla quale ho lavorato negli ultimi due anni, e che ho terminato a fine marzo e ora si sta adattando all’ambiente che la ospita. Sto anche preparando la personale di febbraio nella galleria di Madrid con cui collaboro da anni e poi, dopo e prima, il solito produci-esponi…