Francesca Alinovi, l’azzardo della contaminazione
A casa di Francesca Alinovi (Kenny Scharf sul soffitto) – Foto di Lucio Angeletti
Cultura

Francesca Alinovi, l’azzardo della contaminazione

Omaggi Oggi, al Maxxi, un simposio dedicato alla critica d’arte radicale e fuori da ogni schema, che preferì l’idea di scoperta a quella di consumo. La sua prematura scomparsa - fu uccisa nel 1983 - la trasformò in un caso mediatico, oscurando la sua grande valenza intellettuale
Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 23 febbraio 2022

Francesca Alinovi (Parma, 1948 – Bologna 1983) è stata e resta una icona indipendente nel conformato mondo dell’arte contemporanea, una critica d’arte, scrittrice e docente del Dams di Bologna che ha, soprattutto, imposto una personalità fuori dalla matrice e dai cliché. Una voluttuosa stella intellettuale che rifletteva un mood preciso, alternativo e polimorfico, che si distaccava dal piatto conformismo artistico che all’epoca (gli anni Ottanta), strisciava in un ambiente ponderatamente chiuso in se stesso.

Alinovi, bellissima ed eccentrica, fortunatamente, non aderiva a nulla di preciso se non al suo essere «speciale» e a quel sentire irriverente della scena new wave che la indirizzava ad esplorare i «sentieri selvaggi» e incontrollati dell’arte a venire (come soleva dire) o «Arte mia» (come soleva definirla).

IL SUO ERA UN PENSIERO discordante, strutturato sui propri azzardi (artistici e privati) che oggi appare perfino eretico in un art system che ambisce a uniformarsi piuttosto che a differenziarsi, fino a consegnarsi nella rete del più mite consenso istituzionale. Era una soggettività sempre in grado di abbandonarsi all’empatia e al feeling. Impossibile oggi tessere la stessa empatia con curatori d’assalto, sempre più inclini a incasellarsi in ruoli istituzionali. Parliamo di un altro universo in cui l’ambizione è solo quella di disegnare un pensiero critico fuori dagli schemi.

Laureata in lettere all’università di Bologna (si era specializzata con Renato Barilli), inseguirà poi un intenso percorso come ricercatrice e critica militante, amalgamando i fenomeni di un’epoca pregna di scosse culturali alla sperimentazione artistica che, grazie alla sua verve di viaggiatrice infaticabile (soprattutto negli Stati Uniti) assorbe, rimastica e trasporta in Italia.

Ci rimangono in memoria (per chi ha avuto il privilegio di conoscerla bene) le gemme preziose e poco note di eventi e mostre in cui fondeva autori e discipline differenti e in cui condensava l’arte, il design, il punk, l’elettronica, la performance, il fumetto e il teatro, spaziando da Marcello Jori a Keith Haring, dalla Raffaello Sanzio Societas a Kenny Sharf, da Keith Haring e Demetrio Stratos a Jean Michel Basquiat, da Luigi Ontani ad Andrea Pazienza, da Ramellzee a John Lurie, da Franco Quadri ai Magazzini criminali. E rimangono ancora mirabolici i suoi numerosi studi sul kitsch, sull’Enfatismo, sulla performance, sul graffitismo o slang del Duemila come lo amava definire. Di quest’ultimo, la sua fine lucidità ne articolava i passaggi innovativi, imperscrutabilmente inediti.

«LO SLANG DEL DUEMILA è il linguaggio privato e individuale creato dagli artisti più originali e sensibili di New York, officina della lingua standard universale. Ed è uno slang che si esprime per immagini parole rimanipolate da individualità che affiorano dal magma del massificato con solitari gesti d’affezione», scriveva su Flash Art nel 1983. Così come sulla performance, di cui aveva curato dal 1977 al 1982 la Settimana Internazionale della Performance alla Gam di Bologna, precisava: «Dal momento che la performance è la forma d’arte viva per eccellenza non poteva mancare di sposarsi con il suono, il materiale artistico più fluido, mobile e dinamico che si conosca. Sono finiti dunque i tempi in cui i rituali della performance venivano consumati in un clima di religioso silenzio e di vuoto pneumatico…L’arte dell’era elettronica, vale a dire quella dell’informazione e della conoscenza diffusa dei suoi abitanti circa la pluralità dei messaggi naviganti nell’etere, non può che essere polisensoriale, sinestetica, indefinitamente espansa».

L’irruenza anomala del suo pensiero e del suo agire nonché della sua scrittura potente e poco «digeribile» resta in testi che per anni sono andati in giro sbadatamente, quasi snobbati, obliati da un sistema troppo preso dal fare piuttosto che dal riflettere, intessere e sperimentare. Da una tendenza alla fruizione onnivora che lei, volatile e anticonformista come era, rinnegava epidermicamente.
Al consumo smodato, Francesca Alinovi offriva la scoperta attraverso saggi e scritti su magazine che ora sono stati parzialmente recuperati, come Dieci anni dopo: i nuovi nuovi (con autori vari), La fotografia: rivelazione o illusione? (con Claudio Marra), Arte mia, e Arte di frontiera – titolo anche della mostra realizzata nel 1984 alla Galleria d’arte moderna di Bologna, dopo la sua scomparsa.

LA SUA PREMATURA MORTE venne subito rimossa da un mondo dell’arte fin troppo cauto e fin troppo cinico. Quella sua incredibile fine – è stata uccisa nel 1983 – diventò un «banale» (e anche polemico) caso di femminicidio che incuriosì, morbosamente, la cronaca nera italiana degli anni Ottanta: lei si trasformò in un caso mediatico nazionale, tanto da oscurare il suo profilo intellettuale e vibrante, così poliedrico e avanguardistico. E come sempre accade per le figure pionieristiche che disegnano orizzonti inesplorati e avantgarde (poiché troppo avanti o troppo radicali o troppo individuali rispetto al comune sentire), queste ultime vengono messe ai bordi del sapere istituzionale, minimizzate e sopraffatte dalle mode dei tempi e dalle urgenze del marketing. Recuperate poi nei tempi di magra intellettiva, come questo che stiamo vivendo. Francesca Alinovi ne è un esempio eclatante, se per decenni è rimasta prigioniera di una mediatica e sistematica fenomenologia del delitto.

SCHEDA

A ricordarne la sua poderosa figura, un’anomalia italiana, si terrà oggi al Maxxi (dalle 17 alle 20.30, ingresso gratuito su prenotazione al sito maxxi.art), in collaborazione con la Fondazione In Between Art Film, un simposio che ne racconterà la vita, il lavoro e la personalità, con gli interventi di Bartolomeo Pietromarchi, Alessandro Rabottini, Maria Alicata, Matteo Bergamini, Dafne Boggeri (collettivo Tomboys Don’t Cry), Ivo Bonacorsi, Piersandra Di Matteo, Maria Luisa Frisa, Marcello Jori, Fabiola Naldi, Veronica Santi e Paola Ugolini. Dal 23 al 27, proiezione di I am not alone anyway (2017), scritto e diretto da Veronica Santi.

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