Nella sfolgorante costellazione delle scrittrici latinoamericane del Novecento, sempre meno offuscata dalla lunga indifferenza della cultura «ufficiale», le messicane occupano un posto d’onore, con opere che hanno aperto la strada a eredi eccellenti e numerose, pronte a fare tesoro di una preziosa lezione. Una delle ultime a emergere, tra loro, è Alaíde Ventura Medina, nata nel 1985, che con i suoi tre romanzi (il più recente Autofagìa, è appena uscito presso Random House e ha ricevuto l’entusiastico avallo di Cristina Rivera Garza) si è rapidamente conquistata un posto di spicco.

ARRIVA ADESSO IN ITALIA il suo libro più noto e celebrato (Album di famiglia, Alessandro Polidoro Editore, pp. 207, euro 16), tradotto dalla brava Sara Papini: un testo singolare e dalla scrittura brillantissima, da leggersi come un ulteriore tassello di quella che potremmo definire una storia condivisa e raccontata da molte, troppe voci. È di violenza che si parla, una violenza esercitata nel chiuso della famiglia da un padre pronto a «rompere» in mille metaforici pezzi corpi e menti altrui (il titolo originale del libro è, non a caso, Entre los rotos).
Nonostante sia privo di immagini, il romanzo si presenta come un vero e proprio album, sia pure dall’estetica insolita: un sacchetto di plastica, in cui un ragazzo per sempre e definitivamente «rotto» ha raccolto molte delle foto da lui scattate nel corso degli anni e regolarmente sviluppate e stampate, con assoluta indifferenza per il digitale. A ritrovarle dopo il suo suicidio è la sorella e voce narrante, che le descrive e le commenta, riconoscendo momenti e figure di una famiglia ormai distrutta: i nonni amatissimi, la madre, il fratello bambino, gli animali domestici, le giornate al mare, il corpo massiccio e trionfante del padre, gli interni domestici, gli oggetti.
Osservarle è come unire i punti per far emergere la mappa di un’infanzia e di un’adolescenza devastate da un patriarcato certo del proprio diritto, tra cinghiate, botte e perfino una defenestrazione in piena regola, riservate soprattutto al figlio minore Julian e a sua madre, la cui fragilità sembra aizzare la furia paterna. Quanto alla protagonista, il suo legame con il padre è più ambiguo e include l’attesa di un’approvazione impossibile, che le impedisce di tagliare un legame fatto di umiliazioni e assurdi castighi. Più che le violenze subìte, però, a Ventura Medina interessano le loro conseguenze, che crescono e si dilatano nel tempo: aggressività, bugie e tradimenti diventano il marchio della figlia, mentre il figlio sceglie di sprofondare nel silenzio, diventando un fantasma privo di parola. E il silenzio, con i suoi molteplici significati (anch’esso una forma di violenza, o solo un modo per sopravvivere?) è uno dei fili che attraversano il romanzo, insieme a quello del cibo: le pietanze preparate dalla nonna, che guariscono e confortano, e le continue, nauseanti abbuffate, inconsapevole protesta contro l’idea, usata dal padre come un’arma, che esistano corpi femminili «giusti» e «sbagliati».

DIVISO IN TRE PARTI (l’infanzia dei fratelli, la fuga della ragazza in un altra città e infine il suo tentativo di convivere con Julian), il romanzo si compone di capitoli brevi e brevissimi: piccole storie, aneddoti solo apparentemente slegati che nascono da una fotografia e condensano magistralmente istanti di vita. ll risultato è un collage, una sorta di bacheca piena di foto, ritagli, mappe e annotazioni, «montata» a partire da efficaci espedienti formali: in primo luogo il frammento, che rimanda a vite ridotte in pezzi non ricomponibili; poi gli elenchi, che sembrano voler mettere ordine nel caos e chiariscono con ironica e dolorosa concisione caratteri e situazioni; e infine la risignificazione di parole-chiave inserite in finte voci di vocabolario, come per dare un senso alla disintegrazione che connota i personaggi e il loro percorso.
L’autrice ammette di aver travasato nel romanzo parte della propria vita, ma sottolinea che si tratta comunque di un gioco di possibilità, di un io ipotetico che si muove in un mondo parallelo, insomma di finzione. Chi legge, tuttavia, non potrà fare a meno di riconoscere in questa finzione il riflesso (oscuro e insieme affascinante, perché il libro è bellissimo) di qualcosa che conosciamo fin troppo bene e che troppo spesso ci rifiutiamo di guardare, di vedere, di ammettere.