Frammenti di vita fra verità e finzione
Seiichi Furuya, dalla serie «Last Trip to Venice 1985», Venice, 1985 – © Seiichi Furuya, courtesy by Chose Commune
Cultura

Frammenti di vita fra verità e finzione

Fotografia Europea La XVII edizione del festival si dipana nella città, in un pullulare di mostre che guardano alla memoria intima, alle fake news, alle sconosciute donne della Yakuza, all'Italia in miniatura raccontata da Ghirri
Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 3 maggio 2022
Arianna Di GenovaREGGIO EMILIA

Quell’«invincibile estate» cui guarda la XVII edizione di Fotografia Europea di Reggio Emilia, dopo due anni di pandemia e una cieca guerra che ha portato alla cancellazione di una panoramica sulla contemporaneità russa per l’impossibilità di collaborare con le istituzioni – è anche una cartografia sentimentale poiché chiama in causa il partire da sé per ricostruire un mondo in declino, come lo stesso Albert Camus aveva voluto immaginare nella sua poesia.

L’ECO DEL CONFLITTO in corso arriva comunque dentro Palazzo da Mosto (una delle sedi delle mostre, che ospita la personale di Jitka Hanzlová, Doorway) inserendosi in quel mosaico di percorsi visivi disegnato da Tim Clark e Walter Guadagnini. E lo fa attraverso la fotografia inviata da Alexander Gronsky, artista che si è opposto alla decisione del suo governo di invadere l’Ucraina. L’ha scattata dall’interno del mezzo blindato a seguito del suo arresto (poi è stato rilasciato), si vedono solo sbarre e, dietro, un cielo arancio infuocato dal tramonto.
Ai Chiostri di san Pietro, perno abituale del festival intorno a cui ruotano dieci esposizioni (cuore pulsante, l’omaggio alla statunitense Mary Ellen Mark, scomparsa nel 2015, grande affabulatrice dell’everyday con i suoi servizi sugli esclusi, dai bambini di strada ai «corpi periferici» dei circensi), le storie si intrecciano in una polifonia di voci.

Chloè Jafé

ALCUNE SFOGGIANO un tono «acuto» come gli sgargianti migranti del Mediterraneo rivissuti nei ritratti (un po’ alla Pierre&Gilles) di Nicola Lo Calzo dedicati alla figura di san Benedetto il Moro, o le rappresentazioni delle donne della yakuza di Chloé Jafé. Altre voci, invece, confluiscono in un sussurro diaristico, imbastendo una narrazione puntellata di dolore e struggente malinconia. È il caso della magnifica serie del giapponese Seiichi Furuya (First trip to Bologna 1978 / Last trip to Venice 1985), un’elegia «scritta» con la luce (ma anche finita in vari libri) per sua moglie Christine, la cui presenza e poi assenza tragica (dopo aver manifestato segni di schizofrenia, si uccise) interroga il mezzo fotografico e la fallacia della memoria.

FURUYA NON SMETTE di rivisitare il suo archivio, in un loop interiore per la ricostruzione di sequenze perdute di ricordi, brani di storia vissuta e, infine, per ridonare un corpo a ciò che è diventato invisibile. Come accadde a Roland Barthes (Camera chiara) quando annaspava ricercando l’essenza di sua madre nelle immagini di lei, Christine è il soggetto inconoscibile per eccellenza, da far riaffiorare ormai nel vortice di quel presente «congelato» in un gesto, un sorriso, un’espressione di verità.
Ed è questo valore documentale della fotografia a scricchiolare definitivamente, secondo il norvegese Jonas Bendiksen. The Book of Veles ha l’andamento di un reportage, ma è infarcito di fake news – le immagini sono generate al computer così come i testi, prodotti da una intelligenza artificiale. «Il mio progetto si basa sulla disinformazione: in apparenza, è un saggio fotografico su una cittadina nel nord della Macedonia – dice l’artista – diventata famosa nel 2016 durante il periodo delle elezioni presidenziali statunitensi di Trump. Da lì sono partiti molti siti di informazione che fingevano di avere domini americani per conquistare credibilità. All’interno, vi erano pubblicate solo notizie farlocche e cospirazioniste, che si sono però propagate velocemente. Pure Veles, a cui faccio riferimento nel titolo, è un manoscritto ritrovato nel 1919, scoperto da due russi, creduto antichissimo e invece era un clamoroso falso».

Luigi Ghirri

A QUESTI SDOPPIAMENTI di realtà può forse accostarsi la «favola» ricamata nel parco a tema dell’Italia in miniatura vicino Rimini, che porta al Palazzo dei musei una rassegna imperdibile: In scala diversa. Luigi Ghirri, Italia in miniatura e nuove prospettive. A cura di Ilaria Campioli, Joan Fontcuberta e Matteo Guidi, propone due visionari fuoriclasse a confronto (c’è poi l’incursione degli studenti dell’Isia di Urbino): Ivo Rambaldi l’imprenditore invaghitosi dei monumenti svizzeri riprodotti in forma lillipuziana che prese a girare in lungo e largo la nostra penisola misurando a mano piazze torri, palazzi rinascimentali e orizzonti di paesaggi – sono esposte sue cartoline, appunti, modellini – e Luigi Ghirri (nel suo trentennale) che dalla fine degli anni Settanta visitò e fotografò più volte quel sito di incantesimi che rovesciava il mondo e le sue gerarchie. Le cime delle Alpi innevate lì si potevano toccare con un dito. Anche Alice deve aver provato qualcosa di simile nel suo paese delle meraviglie.

 

SCHEDA

Scatti under 35 ai Chiostri di san Domenico

Con il suo «Diachronicles» – allestito presso i Chiostri di san Domenico – Giulia Parlato (vive tra Londra e Palermo) è la vincitrice del premio Luigi Ghirri (4000 euro) nella IX edizione di Giovane Fotografia Italiana. La mostra «Possibile» (fino al 12 giugno) ha raccolto sette ricerche artistiche selezionate su oltre trecento candidature – Marcello Coslovi, Chiara Ernandes, Claudia Fuggetti, Caterina Morigi, Giulia Parlato, Riccardo Svelto, Giulia Vanelli – in un progetto a cura di Ilaria Campioli e Daniele De Luigi dedicato agli under 35, con la collaborazione di festival europei e realtà nazionali. Parlato ha proposto una riflessione sul ruolo dei musei nella ricostruzione della nostra memoria e anche del presente, mentre Chiara Ernandes (Roma, 1989) partendo dal trauma che alla nascita l’ha sospesa tra la vita e la morte, in «Still birth» sviluppa una temporalità intima e insieme universale. La parziale perdita della vista del nonno ispira invece «La cattedrale di Riccardo Svelto» (Bagno a Ripoli, 1989). Per il 2023, si pensa a una partnership con la Triennale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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