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Frammenti contro la banalità

Frammenti contro la banalitàRitratto di Barthes, di Tullio Pericoli

Intervista Un incontro con il semiologo Paolo Fabbri, che nel 1968 era presente al corso di Roland Barthes che si concluse con la pubblicazione di «S/Z».

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 28 marzo 2015

Paolo Fabbri ha assistito, nel 1968, al corso di Roland Barthes che si concluse con la pubblicazione di S/Z (1969). Le conversazioni con lui lo persuasero della sua attitudine per le scienze umane e della scarsa propensione al testo letterario. È stato Barthes ad avergli consigliato, con delicatezza, di seguire il corso che Algirdas Julien Greimas teneva nel solco della Semantica strutturale (1966).
Consiglio che ha deciso la sua ricerca fino ad oggi. Umberto Eco, con cui collaborava alla cattedra di Decorazione della Facoltà di Architettura di Firenze, gli chiese di tradurre per Bompiani il saggio su La retorica antica (1972). Greimas incluse poi Barthes nel comitato scientifico del Centro di Semiotica e Linguistica di Urbino, fondato nel 1970 da Carlo Bo, Pino Paioni e Fabbri stesso. Barthes non lesinò suggerimenti, ma non partecipò mai alle attività semiotiche. Come ricorda Fabbri, trovava nauseante ogni insabbiamento in un solo indirizzo; non voleva cogliere – era il suo tono Zen – ma non voleva neppure essere colto.
Barthes è uno studioso divenuto «bipolare» nella storia della ricezione critica: esponente di punta dello strutturalismo o viceversa alfiere, con Jacques Derrida, del decostruzionismo…
Sono ricostruzioni immaginarie, formulate ex post e che oggi vanno decostruite. Non mancano relazioni fra Barthes e Derrida – che di Barthes amava molto il libro S/Z (1970) – ma così come Derrida non ha mai praticato nessuno strutturalismo, così Barthes non ha mai detto di essere filosofo e decostruzionista.
Era soprattutto un semiologo e sosteneva che il metodo strutturale lo rendeva più intelligente. Per la sua tesi della pluralità testuale Barthes aveva altri riferimenti: contrari, come Lévi-Strauss, o solidali, come Greimas prima, poi Julia Kristeva e Philippe Sollers. Piuttosto c’è stata una veemente resistenza della filosofia alle scienze umane (Derrida appunto) e delle stesse scienze umane all’ipotesi di un’analisi rigorosa e interdefinita nei testi soprattutto letterari. Barthes, però, sollecitava non il rientro della soggettività perduta nello strutturalismo, ma l’integrazione della categoria con cui la semiotica legge gli effetti di intersoggettività discorsiva: l’enunciazione (Émile Benveniste). Un esempio: je t’aime nei Frammenti di un discorso amoroso.
È probabile che Barthes sia inattuale nell’epoca del pensiero liquido…
Difficile totalizzare la personalità di Barthes. In letteratura secondo me lascerà il segno la raccolta su Sade, Fourier, Loyola (1971), più dello studio su Racine (1963). Sade, Fourier, Loyola, benché inattuale, poco citato, è un contributo alla comprensione del modo con cui le immagini agiscono: l’organizzazione combinatoria dell’erotismo sadiano, le caratteristiche erotiche e utopiche del pensiero di Charles Fourier, le visioni estatiche di Ignazio di Loyola fanno emergere una potenza della «figura» trasversale al linguaggio verbale e al linguaggio visivo. E che resta come insegnamento, sul piano pratico nell’applicazione alla scrittura, sul lato teorico nell’analisi della testualità. Per altro Sade, Fourier e Loyola sono tre autori marginali e trasgressivi. Pensatori fuori canone, come lo era Barthes, che nei Frammenti del discorso amoroso non esita a far ricorso alle visioni dei mistici e alle dottrine buddhiste del Tao e dello Zen.
Il 23 marzo hai coordinato con Gianfranco Marrone a Urbino (CiSS) il convegno «Storie di Barthes». Qual è stato il suo atteggiamento nei confronti della storia?
Decisivo, le ricerche di Barthes sono immerse nella storia, come chiarisce la recente biografia di Tiphaine Samoyault. Su incarico di Greimas e Matoré, ha lavorato due anni, tra il 1951 e 1952, negli archivi della Biblioteca Nazionale di Parigi, per stilare un Vocabolario dei rapporti fra lo Stato, i padroni e gli operai dal 1827 al 1834. Costanti sono poi le riflessioni sul fondatore della Storia di Francia, Jules Michelet, che vanno oltre lo studio dedicato (Michelet 1954).
Con un approccio originalissimo Michelet aveva unito due generi in uno – la propria autobiografia al racconto storico. Barthes è interessato a distinguere questi due aspetti e a capire come si intrecciano. Attingeva all’ipotesi di Lucien Febvre, per cui il concetto stesso di «Rinascimento» è un’invenzione di Michelet, scaturita dallo strettissimo legame fra vicende personali e rigetto della nozione di Medioevo come secolo buio.
Barthes dà inoltre precise indicazioni di metodo nel suo Le discours de l’histoire (1967), dove procede a un esame dettagliato del discorso storico e dei suoi «effetti di realtà». Non esistono fatti che parlino da sé; la storia è un problema di organizzazione di significati. Sono gli anni in cui elabora le teorie della narratività, da intendere non come fenomeno opposto al dato o alla prova, ma come costruzione significativa. Similmente procede Jacques Le Goff, nel porsi questioni di nominazione e periodizzazione. C’è una fase storica che non chiamiamo Medioevo: fino a quando dura? fino alla metà del diciottesimo secolo. E il Rinascimento è un episodio. Oggi, dopo vigorosi dibattiti, è ormai ovvio che la storia è un’organizzazione semantica argomentativa e narrativa. Fanno eccezione le insinuazioni di Carlo Ginzburg, in primis, secondo cui frasi fuori contesto attribuite a Barthes, che «oggetto della storia è il linguaggio», conducono al negazionismo dell’Olocausto. Qui, però, bisognerebbe spiegare Ginzburg, almeno quello di Rapporti di forza (2000), e non Barthes.

Hai tradotto per Bompiani il saggio su «La retorica antica». Il progetto di Barthes era quello di «un serbatoio di figure a uso dei creativi», com’è stato letto di recente (Massarenti, Il Sole 24 Ore)?
Perelman e Olbrechts-Tyteca pubblicano, nel 1956, un trattato sull’argomentazione. Il lavoro di Barthes sulla retorica antica, successivo, è il resoconto di un corso universitario, con un obiettivo diverso: insistere sulla possibilità di una teoria del discorso al di là della frase. Questa teoria, e il suo insieme di operazioni, si richiama alla retorica al di là della rottura positivista tra letteratura e pensiero del linguaggio; ma al tempo di Barthes era una tradizione così complicata, contesa dalla sofistica, dalla logica e dalla grammatica, da esser stata ridotta a una lessicologia. Barthes ne rivendica l’efficacia attuale entro una semiotica del discorso. Dunque i suoi «tropi» non vanno opposti alle «argomentazioni civili» di Perelman, come opina Massarenti. Lo dimostra il ruolo che si riconosce oggi ai tropi nelle scienze dure. Sono luoghi d’ invenzione ed elaborazione del pensiero: «tutte le metafore sono vere, se regolate» (R.Thom).

Che non si tratti di una concezione estetica è evidente dalle riflessioni sul discorso pedagogico, sullo spazio del seminario…
Barthes ha lungamente riflettuto, da un lato, sulla reversibilità tra lettura e scrittura intesa come atto pratico, dall’altro sul modo di insegnare e di fare ricerca. Pensava il seminario in forma di falansterio, aderendo alle teorie di Fourier della non opposizione fra piacere e dovere, dell’attività scientifica condivisa come «mondo amoroso». Una prospettiva utopica, ma felicemente lontana da quella psicanalitica, edipica, che va per la maggiore oggi: l’idea che insegnare è ritrovare il padre.
Questo centenario, se permetterà una rilettura di Barthes, anche solo parziale, sarà l’occasione per ristabilire continuità e rotture, ricollocare adesioni e rifiuti e da ultimo tacitare le banalità che continuano a tediarci.

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