Il confronto-conflitto con l’oscurità che avvolge passaggi decisivi della Storia – con un’attenzione particolare ai destini della natìa Colombia – è al centro dell’opera di Juan Gabriel Vásquez: una oscurità presupposta, ritenuta inevitabile nel processo di costruzione del racconto collettivo, al quale il romanziere di Bogotá ha opposto una poetica vicina al metodo della microstoria.

Se i temi della memoria, della violenza e delle sue conseguenze «rimosse», del dissidio tra aspirazioni personali e travolgenti effetti dei grandi avvenimenti erano declinati nei solidi intrecci romanzeschi degli Informatori e del Rumore delle cose che cadono, già nel penultimo, affascinante La forma delle rovine (Feltrinelli, 2015) il racconto storico si faceva rigoroso, quasi documentale, fino a sconfinare in una forma ibrida, ora consolidata nell’ultimo lavoro in uscita da Feltrinelli, Voltarsi indietro (traduzione di Elena Liverani e Michele Sacchi, pp.400, € 22,00).

Qui non c’è più traccia di eventi fittizi e la narrazione è sostenuta da tracce fotografiche, stralci di diari dei personaggi, lettere. La voce narrante ricostruisce e mette in ordine le vicende di Sergio Cabrera, regista cinematografico colombiano, e della sua famiglia, in particolare di sua sorella Marianella e del padre Fausto Cabrera, anch’egli regista e attore, dalla cui morte comincia, retrospettivamente, la storia. I Cabrera si trovarono coinvolti in alcuni dei più significativi episodi del XX secolo: le sorti erratiche della «famiglia rivoluzionaria» cominciano in Spagna, all’epoca della guerra civile, proseguono a Cuba, passano dalla Cina per poi tornare in Colombia. Per volontà dell’ingombrante genitore, da piccoli, Sergio e Marianella si trasferirono in Cina per essere educati al credo maoista, ciò che li portò a una vita di peripezie e violenza: prima «guardie rosse» in diversi paesi, tornarono in Colombia per unirsi alla guerriglia dell’Ejército Popular de Liberación, vivendo in clandestinità per anni. Le scene di «educazione cinese» ambientate a Pechino, nella parte centrale del libro, colpiscono nel loro nitore; il personaggio di Marianella coinvolge il lettore e lo sfida a comprenderne il dramma personale.

Nel solco della «non fiction», brand editoriale quantomai à la page, Vásquez compie una scelta stilistica autonoma: priva, dichiaratamente, di eventi fittizi, la sua è pura finzione, fatta di dialoghi, svolte narrative, costruzione dell’intreccio. Più in generale, la sua è una pagina che ha lo spessore e il respiro della prosa romanzesca.

Pur toccando in questo libro tutti gli argomenti a lui cari, lo scrittore colombiano non fa niente per imporre Voltarsi indietro come una ricapitolazione delle proprie idee, e giunti alla fine della lettura non c’è nessuna morale che si insinui tra le righe: Vásquez si aggrappa alla speranza che la «fiction», senza il «non», basti a se stessa, e riesce a non sbilanciarsi nel giudicare i suoi personaggi o anche solo nel commentare i fatti narrati, dentro i quali si immerge con dedizione certosina, senza la minima retorica.