Pitonesse, vampiresse, pseudo sacerdotesse, diavolesse, panteresse di squame o pizzi vestite, streghe vendicatrici, vichinghi sovrappeso in perizoma e calzini bianchi di spugna, barbuti muscolosi in tacchi a spillo e guepière, urlatori in panciotti damascati, fauni in smoking tagliati a metà e poi geyser, cerchi infiammati, eruzioni, ondate tsunamiche, lampi, tuoni, tornadi, colonne di fuoco, ancheggiamenti, ammiccamenti, un po’ di folclore etnico spruzzato qua e là, la finale dell’Eurovision Song Contest è stata una maratona per due dei cinque sensi, nello specifico udito e vista. È stato tutto così sopra le righe, e i decibel, che alla fine lo spettatore avrebbe avuto bisogno di tre giorni di ferie in una spa rilassante.

Forse anche per questo alla fine ha vinto Nemo, un elfo svizzero in gonnellina rosa e giubbotto di piume che si definisce non binario e canta un inno alla rottura dei codici, tema caro a questo concorso come dimostra Conchita Wurst che, in barba lunga, ciglia finte e abito a sirena, conquistò da drag queen l’edizione del 2014.
Se si dovesse leggere questo concorso come uno specchio in versione canora dell’Europa di adesso, verrebbe da dire che: 1) Nell’immaginario predominano la femmina guerriera e vendicatrice, un maschio fra lo svitato e il tamarro; 2) Pensiamo che sia più efficace urlare che cantare; 3) Per farsi notare serve il bombardamento visivo e uditivo; 4) Non esiste una canzone europea, ma dei pot-pourri a settori sonori dove l’etnico resiste verso sud mentre a nord si è più portati al metallaro.
Tutto questo spiega perché una canzone orecchiabile, ma non indimenticabile, come quella italiana, La noia portata da Angelina Mango, non avrebbe mai potuto vincere. Era troppo normale in quel girone di eccessi.

Come per il festival di Sanremo, a cui per altro l’Eurovision Song Contest si ispirò quando nacque nel 1956, e la cui prima edizione si tenne a Lugano, non ci si deve aspettare l’innovazione, ma il riflesso del presente, ipocrisie comprese a cui una parte di europei non ha fatto sconti. Quella di Malmö è stata una delle edizioni più contestate sia dentro l’arena, con gli abbondanti fischi alla cantante israeliana, che fuori con le manifestazioni pro Gaza.
Io penso che il boicottaggio degli artisti come ritorsione politica sia una pessima scelta e quindi, se si ammette la cantate israeliana nonostante ciò che il governo israeliano sta facendo a Gaza, perché escludere i/le cantanti russe e bielorusse per quanto sta facendo Putin in Ucraina? O i cantanti sono tutti moralmente complici o non lo è nessuno. O si chiede a tutti di prendere le distanze dalle scelte scellerate del proprio governo o non lo si chiede a nessuno. Sarà poi il pubblico a decidere, in base alla canzone e alla storia dell’artista, se ascoltarlo, votarlo, applaudirlo, fischiarlo o ignorarlo. È sempre meglio avere una voce in più che non averla affatto se vogliamo davvero essere «United By Music», come recitava il motto di questa edizione.
Nell’arena di Malmö le bandiere croate hanno sventolato accanto a quelle spagnole, le greche con le svizzere, le svedesi con le cipriote, le irlandesi con le lituane perché quando metti la gente insieme a cantare e ballare la musica vince, oltrepassa i confini, talvolta anche i nazionalismi, e tutti sappiamo quanto ce ne sarebbe bisogno.
Poi, certo, era tutto ipertrofico ma, come dicevo, quello è uno specchio dei tempi e dei gusti. Sottrarsi alle mode è operazione complessa. Solo le avanguardie ci riescono e le avanguardie, si sa, non hanno mai eccitato le masse, sennò non sarebbero tali.

mariangela.mianiti@gmail.com