È la «Biennale de l’art africain contemporain» (fino al 21 giugno) ad animare in questo periodo Dakar, la pulsante capitale del Senegal, maggiore centro culturale dell’Africa francofona. Come indicano i manifesti in tre lingue (sérère, francese e inglese) appesi per la città, il progetto della XIVa edizione è di forgiare: Î Ndaffa / Forger / Out of the Fire. Ma a cosa si vuole dare forma? Lo spiega il comitato responsabile dell’evento, che ha selezionato i 59 artisti e collettivi chiamati a partecipare: «Il tema scelto rinvia all’idea di plasmare un mondo nuovo e autonomo… che si nutre delle diverse creatività del continente, (da mettere) in dialogo col resto del pianeta». La formula «Î Ndaffa suona come un invito a foggiare un destino comune, un futuro insieme», sostiene dal canto suo il direttore artistico El Hadji Malik Ndiaye.

ALL’ONORE, fra i pittori e gli scultori le cui opere sono presentate nelle sale dell’Ancien Palais de Justice convertite in spazi espositivi, il maliano Abdoulaye Konaté, con i suoi enormi collages composti da piccole strisce di tessuto dai disegni tradizionali, affiancate e sovrapposte le une alle altre con un magistrale effetto di colore.
La Biennale ha invaso Dakar anche attraverso una serie di manifestazioni off, dai profili più vari: musica, danza, spettacoli estemporanei. Fra questi ultimi, ricordiamo l’esibizione di Marième Faye, che ha fondato la prima compagnia professionale di teatro per bambini del Senegal e che gestisce da qualche anno un parco di divertimenti per le famiglie, situato nel quartiere di Hann. È stata la prima attrice del paese a proporre al pubblico un one woman show, che ha intitolato Madame Marguerite. La sua passione per il palcoscenico, come confida nel corso di una lunga intervista, non ha carattere meramente artistico, in quanto traduce l’ambizione di rasserenare gli spiriti, di aiutare le persone grazie a una parola capace di curare. Lo dimostra il suo impegno nel portare il teatro in ospedale, fra i bambini ricoverati o nelle carceri, dove i laboratori di recitazione divengono un’opportunità di reinserimento sociale per i detenuti.

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MARIÈME FAYE redige molti degli sketch umoristici che impersona e, in generale, la scrittura rappresenta per lei «un modo di esteriorizzare, scoprendo un vaso di Pandora intimo ma al contempo collettivo, dove le contraddizioni di un’intera società sono messe a nudo». Comporre brevi testi non significa solo denunciare, insiste l’attrice: «può diventare, a volte, un mezzo per risolvere i problemi», o quantomeno avanzare.
Un’ottica analoga d’impegno al femminile contraddistingue la scrittura di molte autrici di ultima generazione. Eredi di una figura del calibro di Mariama Bâ, conosciuta in Italia per il romanzo Cuore africano (Une si longue lettre, 1979), nel quale veniva affrontata la questione del matrimonio poligamico e dell’umiliazione che comporta per tante donne, le nuove narratrici senegalesi pretendono di dar voce a chi, per mancanza d’istruzione o per estrazione di classe subalterna, ai margini della modernità, non riesce ancora a esprimersi. Ce lo illustra Mariama Nianthio Ndiaye, che abbiamo conosciuto a casa sua, in una zona borghese della capitale. Di famiglia musulmana agiata, ha compiuto gli studi in un prestigioso istituto cattolico, per poi entrare alla Scuola nazionale di economia applicata, che le ha spalancato le porte per una carriera ministeriale nei settori della formazione e della mediazione. Al suo attivo ha varie pubblicazioni, fra cui segnaliamo: Les larmes du foyer (Abis éd., 2020), dove racconta il dramma della violenza domestica, e la raccolta di novelle Au nom de la femme (L’Harmattan-Sénégal 2022), nella quale evoca la poco invidiabile condizione femminile nell’Africa di oggi.

LA SCRITTURA di Mariama Nianthio Ndiaye ruota intorno alle donne ed è a loro che si rivolge. Per tale motivo, a dispetto della realtà di un paese in cui l’analfabetismo degli adulti rimane elevato e tocca soprattutto il genere femminile, ha creato gruppi di ascolto: riprendendo oralmente e in lingua wolof la trama delle sue opere, Mariama Nianthio Ndiaye avvicina donne di ceto modesto all’universo di una letteratura che libera la parola e riproduce verità scomode, sovente sottaciute. Fa capire alle sorelle meno fortunate come il loro difficile vissuto quotidiano non sia un’esperienza unica, ma corrisponda a problemi che, insieme, con dignità e alzando la testa, è possibile superare. Tali donne si riconoscono nelle protagoniste delle storie di Mariama Nianthio Ndiaye e da esse imparano a reagire, rendendosi autonome, in termini materiali e morali.
È infine a Diamniadio, a una cinquantina di km dalla capitale, dove stanno sorgendo avveniristici distretti amministrativi e comparti abitativi volti a decongestionare Dakar, che ci dà appuntamento Aissatou Dieng Kassé, ispettrice all’Istruzione e consigliere tecnico sui temi di genere al Ministero del turismo e dei trasporti aerei. Il suo ruolo istituzionale non le impedisce di esprimersi, seppure con misura, ricorrendo di preferenza al linguaggio romanzato, da un lato più accessibile, dall’altro meno provocatorio dei pamphlets. Lei stessa precisa: «Per favorire il cambiamento non bisogna imporre nulla, ma negoziare di continuo», procedendo con gradualità. Esemplare, la sua iniziativa quando – ancora direttrice scolastica – ha proposto di ospitare nell’edificio di cui era responsabile, fuori dall’orario delle lezioni svolte in francese secondo i programmi ministeriali, i maestri coranici affinché, in aule dignitose, impartissero ai piccoli allievi (talibés) le regole religiose di base, che prevedono il mandare a memoria e il copiare in arabo il Testo sacro dei musulmani.

CON UN GESTO SEMPLICE e in sé rivoluzionario, Aissatou Dieng Kassé coniugava due mondi spesso contrapposti: quello dell’istruzione moderna e laica con quello dell’educazione informale, incentrata unicamente sui valori della fede. Il suo intento era sia di mostrare che le due dimensioni potevano convivere fianco a fianco, sia di criticare in maniera velata le misere condizioni di apprendimento dei bambini nelle scuole coraniche: anziché in spazi angusti, seduti su semplici stuoie, forniti solo di lavagnette in ardesia su cui copiare le surat con bastoncini intinti nell’inchiostro, i talibés (come i loro maestri, i marabutti) potevano ora apprezzare il conforto di un luogo preposto alla didattica, pulito e dotato di banchi. Cambiare l’ambiente significava agire sulle loro menti, stimolare il confronto e, chissà, aprire prospettive inedite senza strappi drastici.

NELLA SUA ATTIVITÀ LETTERARIA, Aissatou Dieng Kassé adotta una procedura identica. Lo dimostra il romanzo Chemins d’école (L’Harmattan-Sénégal, 2022) che traccia le vicende di Néné, una bambina allontanata dai genitori, come dettano usanze ataviche, per essere affidata a una madrina priva di figli. Questa e il padre adottivo vorrebbero educare Néné in modo religioso, mandandola in una daara (scuola coranica), ma lei ambisce a frequentare la scuola francese, come i fratelli rimasti nella famiglia d’origine.
Il desiderio di apertura della ragazzina verrà, dopo dolorose peripezie, soddisfatto e ciò la condurrà, da adulta, a inserirsi nel mondo lavorativo ad alti livelli, diventando una donna indipendente. Aissatou Dieng Kassé narra una storia a lieto fine per far capire ai lettori che esiste sempre una via d’uscita. Osserva: «Scrivendo, si lancia un dibattito che spetterà poi al pubblico apprezzare o meno. Ogni romanzo costituisce un’eredità che si tramanda ai posteri».
In conclusione, Marième Faye, Mariama Nianthio Ndiaye e Aissatou Dieng Kassé ci evocano una scrittura sociale al femminile, nata dal bisogno di cambiamento e che insiste sull’importanza dell’istruzione. Ovvio, il fatto di vivere in una metropoli come Dakar, dinamica sotto il profilo culturale, le aiuta non poco nel loro percorso.