Fra la strada e la vita, un album indiano
Fotografia Un incontro a New York con Ram Rahman, artista e attivista proveniente da Delhi
Fotografia Un incontro a New York con Ram Rahman, artista e attivista proveniente da Delhi
New York è una città a cui il fotografo indiano Ram Rahman (1955, vive e lavora a New Delhi) è molto legato. Prima di tornare stabilmente a New Delhi, negli anni ’80, vi ha trascorso anni condividendo un vecchio loft a Soho con alcuni suoi ex compagni di classe di Yale. Inoltre, a Brooklyn sua madre Indrani Rahman (Miss India 1952), nota per aver introdotto la danza tradizionale dl suo paese negli Stati Uniti conobbe a 15 anni suo marito, l’architetto modernista Hahib Rahman. La passione per la danza indiana le era stata trasmessa in famiglia, dalla madre Esther Sherman, interprete di danze tradizionali del Tamil Nadu e del Kerala che aveva cambiato il nome in Ragini Devi e ancora prima di andare in India, nel 1930, indossava il sari. È questa l’affascinante saga familiare ripercorsa nel libro Dancing in the Family: The Extraordinary Story of the First Family of Indian Classical Dance (2019) scritto da sua sorella Sukanya Rahman.
Le fotografie in bianco e nero di Ram Rahman – usa il colore soprattutto per documentare le architetture riflettono la vita quotidiana indiana con un taglio documentaristico da cui affiora un sottile umorismo. Rahman è anche curatore e attivista, membro fondatore di Sahmat (Safdar Hashmi Memorial Trust) – all’indomani dell’assassinio del drammaturgo e regista Safdar Hashmi, che riunisce oltre 60 artiste e artisti (tra loro M. F. Husain, Nalini Malani, Manjeet Bawa, Subodh Gupta, Zarina Hashmi), di cui ha co-curato con Jessica Moss la retrospettiva The Sahmat Collective: Art and Activism in India since 1989. Inaugurata allo Smart Museum of Art, University of Chicago nel 2013, la mostra continua a viaggiare.
Partiamo dagli studi in fisica al Mit-Massachussetts Institute of Technology e poi a Yale, dove nel ’79 ha conseguito la laurea in graphic design. Come si è avvicinato alla fotografia?
Bisogna fare un passo indietro, tornando al contesto culturale in cui sono cresciuto. Mio padre, che era architetto, fotografava e in casa aveva un ingranditore con cui stampava le sue immagini. Conoscevo anche molti dei fotografi che avevano ritratto mia madre – nota ballerina di danza classica indiana bharatanatyam, kuchipudi, kathakali e odissi – come pure le architetture di mio padre. Ma allora non avevo mai preso troppo seriamente la fotografia, ero più interessato alla pittura, al teatro e ad altre discipline. Finché al Mit, dove ero arrivato per studiare fisica, tra le materie umanistiche scelsi il laboratorio di fotografia creativa tenuto da Minor White. Era curioso: lui era un autore della West Coast che faceva soprattutto fotografia di paesaggio e naturalistica, ma era anche coinvolto con il misticismo. Usava la sua fotografia come mandala per la meditazione. Con lui seguii anche dei workshop di reiki dove si ballava al buio, senza le scarpe, per attivare la kundalini. E dire che venivo dall’India, ma ero completamente scettico. Mio padre soprattutto era contrario ai rituali religiosi, mentre mia madre aveva una forte connessione spirituale attraverso la danza. Ad ogni modo, cominciai a studiare fotografia e con il mio straordinario insegnante Jonathan Green, succeduto a White come direttore del laboratorio di fotografia, iniziai subito con il banco ottico, a studiare la storia della fotografia di cui non sapevo nulla e a stampare in camera oscura. Mi affascinava la disciplina e il mestiere, così sono entrato sempre più profondamente nel mondo della fotografia. Green mi aveva dato le chiavi del laboratorio così potevo stampare in autonomia il mio lavoro. Fu importante anche seguire gli incontri con autori come Brassaï, Ansel Adams e Susan Sontag, invitati dal Mit per le lecture.
E cosa ne è stato dei suoi studi scientifici?
In quel frangente, mi sono reso conto di non essere abbastanza bravo in fisica: la visione romantica che avevo di questa materia non corrispondeva alla realtà. Cambiai indirizzo, scegliendo il dipartimento di architettura dove conseguii la laurea in Scienze dell’arte e del design. Fu Muriel Cooper, fondatrice del Visible language workshop del Mit – è lei che mi ha introdotto alla storia dell’avanguardia sovietica e tedesca – a spronarmi ad andare a Yale per continuare gli studi. Fui tra i pochi ammessi ma odiai subito quel luogo: era l’esatto opposto del Mit, un’università molto rigida e, negli anni ’77-’79, anche razzista e antisemita. A Yale, comunque, mi feci molti amici tra i compagni di classe, alcuni dei quali sono diventati grandi nomi come Philip-Lorca diCorcia con cui condividevo l’interesse per il cinema. Andavamo a vedere i film di Pasolini e Fellini. Da lui comprai un vecchio banco ottico 6×7 con cui ho continuato a fotografare anche quando sono tornato a New Delhi. Il mio lavoro ruota intorno alla mia vita, soprattutto fuori Delhi e in altre città dell’India dove ho viaggiato, gli incontri con artisti, attori, architetti, musicisti, persone che – attraverso le generazioni – hanno fatto parte del circolo dei miei genitori e del mio, poi piano piano sono sempre stato più coinvolto con la politica.
È stato influenzato in maniera particolare da qualche fotografo e fotografa?
Per la street photography, la mia fonte d’ispirazione l’ho trovata in Raghubir Singh, a cui sono stato molto vicino. Attraverso di lui ho conosciuto Lee Friedlander. Allora guardavo al lavoro di autori come William Gedney che era gay e ha fotografato per anni la scena di san Francisco, era molto rispettato da Friedlander, Garry Winogrand e Diane Arbus che ammiravo insieme a Helen Lewitt. Gedney, in particolare, si recò in India dove incontrò Raghubir Singh e realizzò un lavoro piuttosto inusuale per un fotografo non indiano. Forse perché gay era affascinato dalla relazione spontanea tra gli uomini, che in India non è necessariamente di natura sessuale ma più un’interazione fisica. Le sue foto sono sorprendenti.
A proposito dell’imprinting del suo milieu familiare?
Sia mia madre che mio padre facevano parte di quella che chiamo la «Nehruvian Camelot». Fu Nehru a portare i miei genitori a Delhi. Quando si conobbero nel ‘49, all’inaugurazione del Memorial per Gandhi, l’architettura con cui esordì mio padre in India, a Barrackpore, Calcutta, il primo ministro gli disse che doveva assolutamente andare a Delhi perché avevano bisogno di persone come lui. Con l’Indipendenza fu possibile anche vedere la danza classica indiana che sotto gli inglesi non era stata più considerata. Mia madre diventò una star. La sua arte faceva parte di quel revival culturale del ritorno alle origini, così come la musica con strumenti come il sitar suonato da Ravi Shankar, che pure faceva parte del loro circolo.
In casa eravamo solo due figli, io emia sorella maggiore, la nostra non era affatto la famiglia indiana tradizionale. Benché i miei genitori, a un certo punto, avessero avuto un rapporto terribile hanno sempre mantenuto un rispetto reciproco per il lavoro creativo dell’altro. Chi veniva in casa nostra, era sicuramente progressista e direi rivoluzionario, non solo dal punto di vista politico, anche nella stessa vita. C’era qualche altra famiglia di artisti come la nostra, ci conoscevamo e noi figli siamo cresciuti tutti insieme. La casa era frequentata da attori teatrali, pittori, registi, musicisti indiani – ricordo il guru di kuchipudi che si metteva lo smalto alle unghie e il rossetto ma aveva un corpo massiccio maschile – così come ospiti internazionali, tra cui Isamu Noguchi, Martha Graham, Robert Rauschenberg, John Cage, Philip Johnson e tanti altri ispirati dalla filosofia di Gandhi con la sua lotta non violenta per la libertà contro gli inglesi e l’enfasi sulle radici culturali come strumento di forza. Questo sguardo sulla nuova India non aveva nulla di esotico o coloniale, era un atto fantastico di resistenza.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento