Fra acribia e passione: Pierluigi Pellini ricorda i suoi maestri involontari
Critica «Tre grandi critici. Luigi Blasucci, Remo Ceserani, Francesco Orlando», da Euno/Siké edizioni
Critica «Tre grandi critici. Luigi Blasucci, Remo Ceserani, Francesco Orlando», da Euno/Siké edizioni
Anche sulla propria costruzione intellettuale la fortuna gioca un ruolo decisivo: ne è una concreta dimostrazione il piccolo e coinvolgente libro dedicato da Pierluigi Pellini a Tre grandi critici Luigi Blasucci, Remo Ceserani, Francesco Orlando (Siké, pp. 105, euro 12,00) ognuno dei quali – in modo diversamente determinante – ha concorso alla formazione dell’autore, francesista nonché spietato lettore analitico di testi letterari.
È innegabile la quota di piacere derivata dal ritrovarsi a casa, non solo per essere più volte penetrata nel cerchio magico dei tre critici ricordati – magari in virtù del ruolo, per molti versi paradossale, di committente, che si è evoluto in amicizia – ma anche per quella particolare complicità che si crea quando si riconosce, nelle pagine che si stanno leggendo, l’affacciarsi di noti idioletti. E, soprattutto, per la commozione suscitata dal vedere restituito, in parole che sembrano ridargli vita, il carattere di questi tre maestri involontari.
Buona parte del piacere derivato dalla lettura di quanto scrive Pierluigi Pellini (qui è altrove) sta proprio in quell’intreccio di orme che lasciarono, sulla sua giovane predisposizione di Normalista, gli esempi depositati quale incorruttibile eredità, dai tre critici, che insieme a Philippe Hamon, hanno più contato nella sua vita di studioso. Di Blasucci scrive : «… la sua insofferenza più grande… era per le letture cervellotiche, per gli eccessi di un’intelligenza capziosa sempre al rischio di trasformarsi nel suo contrario. E tuttavia si definiva “critico liceale” anche, forse soprattutto, per ribadire il primato del gusto sul metodo – su qualsiasi metodo: perfino quello ammiratissimo di Contini… Primato del gusto significava per lui fiducia nell’intuizione, fedeltà all’orecchio… Capacità, insomma, di ascoltare i testi con amore – per passione profonda, non per esercizio di laboratorio».
Ciò che Pellini rivendica, del lascito di Blasucci, è non solo quel che sa di metrica e di stilistica, ma soprattutto l’investimento in uno studio finalizzato a «dare voce ai testi e aggiungere bellezza alla loro lettura», il cui precipitato più significativo è stato il suo commento a nove romanzi di Zola. Come tutti i maestri rigorosi e esigenti, Blasucci poteva essere frustrante: perché non solo riportava alla loro ingenuità di imberbi studiosi le improbabili velleità totalitarie di alcuni suoi allievi, ma anche perché opponendo loro la fatica dell’analisi, raggelava sul nascere ogni egotistica impennata interpretativa: «il suo imperativo di fedeltà al testo, il suo rifiuto dell’azzardo ermeneutico, che erano esigenze deontologiche, potevano essere percepiti come rigidità autoritaria». Che nostalgia, ora che il terrore di apparire fuori dal proprio tempo fa passare – dagli insegnati agli studenti (di qualsiasi latitudine) – la drammatica legittimazione di ogni improbabilità ermeneutica, di ogni proiezione delle proprie turbolenze psichiche su testi letterari innocenti.
La generazione degli accaniti vivisezionatori di opere letterarie non era ancora in cattedra quando Blasucci si attardava amorevolmente sul dettaglio stilistico per strappare alle opere (di Leopardi, Montale, Dante, Ariosto, fra gli altri) il segreto della loro riuscita estetica, lontano sia dal sistema della variantistica di Contini sia dal pregiudizio di ascendenza crociana «che isola e privilegia una presunta lirica pura». Ossessività e autoironia, sempre reciprocamente in dialogo nelle parole di Blasucci, ricorrono nella chiusa delle pagine a lui dedicate, dove Pellini ricorda quando – già non più suo allievo – incontrò l’ex professore, novantacinquenne, in bicicletta; e a commento della sua frase affettuosa ricevette una sola parola: «endecasillabo».
Un incipit vagamente carducciano – «La strada che da Sora… porta a Opi…» – introduce le pagine dedicate a Remo Ceserani, passando per alcune esperienze personali dell’autore, padre alle prese con i testi scolastici della figlia, che gli offrono l’impietoso paragone con quel rivoluzionario monumento didattico titolato Il materiale e l’immaginario, che Remo curò, con il suo tipico entusiasmo, insieme a Lidia de Federicis: versatilità e rigore, intimità con le opere e, al tempo stesso, digressioni sul loro entourage storico, culturale, letterario si erano depositati in quei volumoni, che negli ultimi anni della sua vita Ceserani si era temerariamente dedicato a rinnovare.
Intanto, erano passate una dopo l’altra le stagioni del marxismo, della psicoanalisi, dello strutturalismo, del decostruzionismo, del postmodernismo, da ognuna delle quali Ceserani sapeva cogliere il meglio, con una curiosità immune da snobismi. Tutti i metodi della critica gli erano familiari, ma nessuno di essi era stato da lui adottato e fatto proprio, e nulla gli era più lontano dei dogmi, dell’aridità dottrinaria, delle altezzose prese di distanza che noi, allora giovani, opponevamo per esempio alle sue simpatie per la critica tematica.
Pellini, per il quale, forse grazie alla sua proverbiale bonarietà, Remo era piuttosto «uno zio» che un padre, rende noto, del mai preteso «maestro», il primo attraversamento in nave per studiare con René Wellek, celebre difensore del New Citicism. Lo conobbe fra gli anni Ottanta e i Novanta, quando Ceserani si era fatto promotore della rifondazione, in Italia, dell’insegnamento delle letterature comparate, abbandonate prima per il veto crociano poi perché implicavano lontananza dall’acribia filologica, quando non disprezzo.
Proprio perché oggi, nel moribondo dibattito letterario, ciò che sembra essere in gioco non è l’efficacia o la credibilità o la pertinenza di un’idea o l’altra di letteratura, bensì la legittimità stessa di una teoria che la riguardi, tutta la lezione di Francesco Orlando è – scrive Pellini – «più che mai preziosa». Parole ben calibrate (nulla, del resto, essendo abbandonato alle convenzioni in questo libro) per dire della inimmaginabile singolarità di una figura (vagamente letteraria anch’essa) che aveva «il carisma di una parola irripetibile: di una retorica avvolgente, di una disponibilità all’ascolto sempre pronta a inglobare e annullare, con seducente prepotenza, ogni possibile obiezione».
Non si potrebbe dire meglio a proposito di quella ingannevole suadenza che era propria di Orlando, di quella d’altri tempi gentilezza i cui modi non venivano meno quando confutava, nevroticamente ingarbugliato nella preoccupazione di venire malcompreso, tesi interpretative diverse dalla sua. La cortesia dei modi ritardava la percezione del suo considerevole narcisismo, che si proiettava anche sulla granitica certezza dei risultati delle sue ricerche, effettivamente così minuziose da risultare irrefutabili.
Anche una qualche soggezione verso le profondità ermeneutiche delle sue letture, che stanavano i sintomi più nascosti tra le pieghe della lingua usata dai classici (la sua analisi di Racine resterà, invidiabile, a futura memoria) aveva forse contribuito alla scarsa circolazione dei testi di Orlando, sia qui che all’estero, sebbene sia stato prima di tutto un sommo francesista. Tipica di lui – ricorda Pellini – la sua ripulsa «dell’aborrito feticcio delle tre B: Bachtin, Barth, Benjamin», studiosi i cui nomi non a caso affollano le recensioni dei principianti.
E forse anche queste righe soffrono dei precipitati delle diverse idiosincrasie, mutuate in gran parte proprio dai due studiosi – Orlando e Mario Lavagetto – che meglio hanno utilizzato il metodo freudiano per la lettura dei testi, evitando peraltro di impugnare la psicoanalisi a mo’ di grimaldello e preoccupandosi, anzitutto, di studiare bene le fonti (Matte Blanco, soprattutto, per quanto riguarda Orlando).
Pellini considera Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura (testo sulla cui schedatura mi accanii prima di recensirlo, con il solo risultato di pervenire a un formato lillipuziano della enorme nonché capillare catalogazione che l’autore aveva accumulato nei decenni) il suo capolavoro: organizzato in dodici categorie, un ingente corpus di brani letterari servì a Orlando per dimostrare come «il fascino esercitato sulla letteratura occidentale dalle immagini di oggetti non funzionali s’intensifichi in misure esponenziale dopo la svolta storica di inizio Ottocento, in coincidenza con la rivoluzione industriale». Gli oggetti desueti, quelli che non possono essere tradotti in merci in quanto polverosamente datati e antifunzionali, sono per Orlando gli strumenti del ritorno del represso, che affiora nella letteratura, quale ribellione al primato dell’efficienza, dominante nelle società industrializzate.
Non è una semplice coincidenza – nota Pellini – il fatto che negli stessi anni «uno dei maggiori narratori viventi», Don DeLillo, stesse scrivendo il suo, di capolavoro: «i regesti letterari di oggetti non funzionali, come la spazzatura e le scorie nucleari di Underworld, esibiscono il rovescio oscuro di una razionalità tardomoderna, attonita d’orrore e affascinata di fronte al proprio rimosso».
Visti della distanza del lettore complice, i quattro protagonisti di questo libro non esibiscono alcuna somiglianza – né di scrittura, né di orientamento critico; mentre la vicinanza affettiva maggiore la si indovina con Remo Ceserani, il più lontano dal Pierluigi Pellini critico, le cui pagine risentono della lezione di tutti e tre i suoi maestri involontari, e naturalmente di tante altre schegge più o meno consciamente captate da altre letture.
Di certo, questo libro rende evidente a tutti, anche a chi non ne ha avuto esperienza ma sa che è esistito, non solo l’esempio, orale e scritto, che il sedimento della grande letteratura aveva depositato nelle pagine di questi tre protagonisti della critica; ma anche il fatto che con la loro scomparsa è venuta meno la possibilità di ricorrere, in ultimo appello, a una parola dirimente sul giudizio di un testo del passato o del presente. Oltre essere una lettura trascinante per la concretezza testimoniale di esempi drammaticamente estranei al nostro qui e ora, questo piccolo e straordinariamente intenso libro di Pierluigi Pellini è un dono postumo, che gronda riconoscenza: il più nutritivo dei sentimenti.
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