Una valigia aperta che svela il suo contenuto di ricordi è di per sé un oggetto presente nella sua forma fisica e metaforica, lo «chaperon» adatto per accompagnare nel viaggio, attraverso uno spazio e un tempo solo in parte definibili. Lo è anche la scatola delle scarpe o quella di latta per biscotti, un vecchio cartone con lo spago, la cassetta di legno che in altre vite ha ospitato pregiate bottiglie di vino. Oggetti che mettono da parte la loro originaria funzionalità per ospitarne altri: fotografie, scartoffie, lettere, santini. È una valigia aperta quella fotografata da Mario Cresci (Chiavari, 1942) che mostra il suo contenuto di ricordi compressi, cristallizzati, sedimentati. L’Archivio della memoria fa parte di una serie di immagini in bianco e nero scattate nel 1979 da questo straordinario protagonista della sperimentazione fotografica a Barbarano Romano (Viterbo).

Nella camera da letto «antica» con il tradizionale copriletto di lana tra le due spalliere in ferro battuto (vi è adagiato anche un centrino all’uncinetto) ad attivare l’immaginazione sono proprio le fotografie, ritratti di esseri umani che hanno abbracciato l’incognito ormai da parecchio. Immagini che si rivelano nella loro dirompente propensione evocativa di un mondo che oggi sembra remoto. In tutta la sua fisicità, non solo come registrazione di un’immagine «reale» a cui è affidato il ricordo, la fotografia è presente ma sospesa. Tra le circa 400 fotografie vintage (stampe alla gelatina ai sali d’argento) esposte nella mostra personale Mario Cresci. Un esorcismo del tempo, curata da Marco Scotini con Simona Antonacci alla Galleria 5 del MAXXI di Roma (fino al 1° ottobre), il nucleo principale è dedicato alla Lucania, dove il fotografo giunge nel ’66 e rimane fino agli anni Ottanta per collaborare a redigere il Piano Regolatore della città, con diversi lavori tra cui Interni mossi, Tricarico, Matera (1967), Ritratti reali, Basilicata (1972), Matera immagini e documenti (1975), Misurazioni, Matera (1975-80). «La loro natura è quella del documento etnografico o – viceversa – quella dell’oggetto teorico? Sono, in questo senso, il segno di una tensione meta-fotografica, di un’indagine autoriflessiva? Non si limitano, cioè, a mostrare un’immagine me espongono, addirittura, la rappresentazione che la governa? Inoltre, queste immagini dell’inizio degli anni Settanta che cosa interrogano? Il loro obiettivo è quello di attestare o ratificare qualcosa oppure, all’opposto, di metterla in dubbio?», si chiede Marco Scotini nelle pagine del catalogo edito da Contrasto. La tensione tra ieraticità del rituale quotidiano ed attimo fuggente, messa in posa e spontaneità traduce quell’esercizio di riscrittura di un presente che Mario Cresci osserva senza pregiudizio. Un segmento temporale in transito che indugia sugli archivi di famiglia, custodi di microstorie che confluiscono nella grande Storia.

Questo concetto è focale anche nella mostra Peggy Kleiber. Tutti i giorni della vita (fotografie 1959-1992), curata da Arianna Catania e Lorenzo Pallini e organizzata in collaborazione con dell’associazione Les photographies de Peggy Kleiber al Museo di Roma in Trastevere (fino al 29 settembre).
Qui il protagonista assoluto non è né il soggetto delle immagini né l’autrice degli scatti ma l’archivio in sé. Un archivio privato di circa 15mila foto, scattate tra la fine degli anni ’50 e gli anni ’90, da una fotografa amatoriale sconosciuta (niente a che vedere con il «caso» Vivian Maier), riscoperto dalla famiglia dopo la sua morte all’interno di due valigie. Peggy Kleiber (Moutier, cantone di Berna, Svizzera 1940-2015) si era appassionata al linguaggio fotografico frequentando ad Amburgo, nel 1961, la Hamburger Fotoschule. Con al collo l’inseparabile Leica M3 aveva viaggiato molto in Europa, tornando frequentemente in Italia.
La mostra presenta due capitoli importanti del suo lavoro – la famiglia e l’Italia – attraverso lettere, diari, negativi, mappe, film in Super 8.

Lei stessa aveva realizzato il libro Rue Neuve 44 Cronaca della vita familiare 1963-1983 che aveva donato ai suoi famigliari. «Spesso le pellicole, quasi tutte in bianco e nero, venivano ‘tirate fino alla fine’, tanto che alcune immagini giungono a noi come frammenti strappati di un tempo ritrovato», scrivono i curatori. Soprattutto nelle foto scattate in Italia (dove torna puntualmente negli anni ’60 visitando la capitale, Paestum, Capo d’Orlando, in Umbria e altre località fuori dalle rotte tradizionali del Grand Tour), Kleiber – flâneur attenta e rispettosa – non indugia sulle edulcorate visioni che piacciono tanto al viaggiatore straniero, piuttosto si lascia guidare dallo sguardo di Danilo Dolci, che ha modo di conoscere e frequentare, raccontando attraverso i gesti delle persone i luoghi abitati delle periferie e del centro storico di Roma. Una Roma diversa da quella fotografata da un altro amateur, il blasonato Francesco Chigi Albani della Rovere (1881-1953), autore del fondo di oltre seimila unità (soprattutto negativi su vetro e pellicola) donato nel 1970 dalla famiglia all’allora Gabinetto Fotografico, oggi ICCD – Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione.

L’artista, docente, curatore e scrittore Joan Fontcuberta (Barcellona, 1955), invitato dall’Istituto a dialogare con le sue collezioni storiche ha scelto proprio di intervenire su questo fondo. Grazie all’avviso pubblico PAC2021 – Piano per l’Arte Contemporanea promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, è stata realizzata la mostra Joan Fontcuberta. Cultura di polvere (fino al 29 settembre) – il titolo è una citazione dell’opera di Man Ray e Marcel Duchamp Élevage de poussière (1920) – a cura di Francesca Fabiani, con la produzione del libro d’artista (Danilo Montanari Editore) e l’acquisizione delle sue opere nella collezione di fotografia contemporanea dell’ICCD. L’interesse dell’artista catalano è stato indirizzato più che da un determinato tema o dalla componente estetica delle lastre dal loro grado di deterioramento, attaccate da muffe, funghi ed altri agenti nocivi.
Nei 12 light box realizzati per la mostra scansionando e intervenendo sulle lastre originali si assiste alla «rivincita» del danno, della magagna, dell’errore ma anche all’«agonia materiale della fotografia. La fotografia è un dispositivo di memoria legato alla materia.» – afferma lo stesso Fontcuberta – «Il suo deterioramento materiale genera una fotografia paradossalmente ‘amnesica’, senza più memoria».