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Foscolo, arte e vita nel biennio di Bellosguardo

Foscolo, arte e vita nel biennio di BellosguardoAntonio Canova, Elena, 1812, modello in gesso, Possagno, Gipsoteca

Classici e Novecento Da un più ambizioso progetto (mai realizzato) Leone Piccioni ritagliò infine il saggio «Foscolo 1812-1813»: lo ripubblica Succedeoggi Libri

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 9 giugno 2024

«Quando vidi questa divinità del Canova, me le sono subito seduto vicino, con certa rispettosa domestichezza, e trovandomi un’altra volta soletto presso di lei, ho sospirato con mille desiderj, e con mille rimembranze nell’anima: insomma se la Venere de’ Medici è bellissima dea, questa ch’io guardo e riguardo è bellissima donna…». È un brano, celebre, sulla Venere del Canova, contenuto in una lettera di Ugo Foscolo a Isabella Teotochi Albrizzi (1812).

Nel 1944 Giuseppe De Robertis invita il diciannovenne Leone Piccioni ad approfondire la sua conoscenza di Foscolo in uno studio serrato dei dodici volumi editi da Le Monnier. Il futuro critico di Ungà (nel ’48 vedranno la luce i Due saggi sulla poesia di Ungaretti) si cimenta nell’impresa con grande dedizione: in breve tempo pianifica la stesura di «un volume di 200 o 300 pagine dedicato all’“ultimo Foscolo”: dall’Orazione di Pavia alla stagione inglese». Tra nuove imprese lavorative e occasioni rimandate, Piccioni riesce a riordinare gli appunti e a completare soltanto nel 1958 il saggio intitolato Foscolo 1812-1813 Una stagione esemplare della vita e dell’opera. Esso compare a stampa dieci anni dopo, come testo di apertura in Pazienza ed impazienze. Studi e saggi 1946/1966 (Sansoni). È adesso finalmente riproposto da Succedeoggi Libri (pp. 96, € 16,00) con una dotta prefazione di Massimo Onofri, il quale ricorda giustamente come queste siano pagine «nutrite dalla convinzione che le tre controfigure dell’autore – Ortis, Foscolo e Didimo – abbiano coabitato in ogni fase della sua vicenda: basterebbe pensare al rapporto di Foscolo con Sterne – e Piccioni lo dimostra facilmente – già vivo e importante molto presto, in ogni caso assai prima degli anni terminali in cui, appunto, il “tono Sterne” acquista un ruolo cruciale e predominante».

È, per Foscolo, il tempo fiorentino di Bellosguardo: un’isola biografica serena, luminosa che dura dall’agosto del 1812 all’ottobre del ’13 e consente all’inquieto autore dei Sepolcri di comporre i frammenti delle Grazie, prima della bufera esistenziale e dell’esilio definitivo dall’Italia (Onofri ricorda anche la successiva catabasi: «Poi la vita diventerà tutta un orroroso precipizio: l’amore non corrisposto per Carolina Russel, che ha la metà dei suoi anni, i debiti e i creditori che non gli danno pace, la miseria sempre più grande – si ridurrà a vivere senz’acqua – e una grave malattia che lo porterà alla morte il 10 settembre 1827. Unico conforto la figlia “ritrovata”, Floriana – ma era davvero sua figlia? –: che lo accudisce amorevolmente. È il periodo “più eroico” della sua vita, “che dimostra la forza morale della sua tempra”»).

Il sensismo foscoliano si traduce qui in un fortissimo attaccamento alla contingenza e ai sentimenti, di cui Piccioni riesce a cogliere tutte le variazioni sulla tastiera, per così dire, stilistica. Dalla contessa d’Albany a Cornelia Martinetti, da Antonietta Fagnani Arese alla citata Teotochi Albrizzi: le figure femminili di Ugo si caricano di un incremento della forma che determina la loro posizione assiale nella poesia (Lanfranco Caretti la definì «universalizzazione della propria autobiografia affettiva»). Sono «insieme, donne di oggi (parte della sua privata galleria) – dichiara Piccioni – e mitiche dee che impersonano eterne idee dall’antico, simboli di gloria e di beltà, di carne e di sangue e di mito; insieme, di recondito significato riposto d’amore, e di spirito, e di trepidazione d’amante. In questa loro stessa umbratilità e vibrazione, Foscolo vuol mettere al riparo queste forme di bellezza: e se nelle prose o nel frammento della “mammola” si mostrano a noi già all’estremo rigoglio della bellezza, lì lì al valico del versante che le riponga nell’ombra irrimandabile, nei frammenti più alti delle Grazie sono investite da una limpida luce, chiarissima, senza più ombre, splendono incorrotte, ma non perciò perdono di sangue e di colore umano, né si raggelano a distanza: splendono a patto di una illusione imposta, splendono nella determinata rinuncia da parte del poeta a considerarle se non purissime e ferme nella memoria: incorruttibile memoria».

A differenza di Monti e Canova, il poeta di Zante sembra recuperare il classico senza sforzo alcuno: «Foscolo, in natura, è nato – prosegue ancora Piccioni – in un mondo, in un paesaggio, con dei colori che sono rimasti esattamente simili a quelli dell’antico mito: la realtà e l’esperienza presente si ricongiungono direttamente in quegli occhi fanciulli al mito antico». Singolare dote che gli consente di scrivere naturalmente i segmenti delle Grazie, attingendo con immediatezza a «un classico clima di poesia, senza implicazioni culturali di nessuna specie».

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