Quando alle assise di Forza Italia a Roma si materializza Paolo Berlusconi, fratello della buonanima e unico rappresentante della famiglia, Tajani, dal palco, si commuove: «Abbiamo fatto un regalo a tuo fratello, questo congresso con 1300 delegati che gli rende omaggio».

Omaggio? Piuttosto la celebrazione di un culto. Berlusconi è ovunque: evocato, ricordato, esaltato, rimpianto. Tajani, che sarà segretario e non presidente perché il presidente vivo o morto che sia resta Lui, si schermisce: «Berlusconi era Maradona, noi dobbiamo fare gioco di squadra».

Meloni, in videomessaggio, esalta «l’uomo straordinario che ha segnato la storia» e ha regalato al Paese «la democrazia dell’alternanza».

Ursula von der Leyen, anche lei in video, applaude il nuovo leader grazie al quale l’Italia «resta l’àncora d’Europa»: va da sé che a rendere tali il partito e il Paese è stato lo scomparso.

Il video scelto per la funzione è quello dell’ultimo discorso del gran capo, sulla fiducia al governo Meloni: un po’ di propaganda non guasta. La gigantografia lo ritrae col delfino, stile sovietico ma in salsa wahroliana. Chiunque parli con la stampa lo cita e se non spuntano i lucciconi poco ci manca.

EPPURE QUESTA PRESENZA fantasmatica e pervasiva non è il segno di una continuità che si tramanda grazie al marchio indelebile lasciato dal fondatore. È l’eco di un’assenza. Senza re Silvio non c’è neppure Forza Italia, non la Forza Italia che ha calcato le scene per tre decenni.

Di quel partito Berlusconi era non solo l’anima ma anche il corpo, la voce, la mente. Ne era l’immagine e la sostanza.

La missione che i 1300 delegati affidano a Tajani non è prendere le redini di un partito. È crearlo.

«Questo è il discorso più importante e difficile della mia vita», esordisce l’incoronato, ma sa che le difficoltà vere non sono in questo congresso in cui tutto è stato deciso da prima, con le cariche spartite meticolosamente tra i diversi potentati, l’opposizione inesistente. Sono dietro l’angolo, a partire da domani.

TAJANI, L’EX GIORNALISTA che trent’anni fa il sovrano scelse per primo portavoce, è ormai un politico esperto e navigato. Ha evitato la tentazione di calcare le orme del re per adottare uno stile non diverso ma opposto: discreto, più sobrio di come non si può e di Silvio Berlusconi tutto si può dire tranne che fosse discreto e sobrio.

Non è solo questione d’immagine. Tajani Fi se la immagina così e così vuole che diventi: un partito davvero moderato anche nei toni, centrista pur se schierato senza esitazioni a destra, radicale solo in un europeismo da battersela con Draghi e in un atlantismo non dell’ultima ora come quello meloniano, al cui confronto Stoltenberg è una colomba.

Perché solo così si può «occupare l’immenso spazio tra Schlein e FdI» e quello è l’ambizioso obiettivo dichiarato dal segretario. Ma anche perché quella è la postazione che rende Fi essenziale per Meloni e che marca la differenza tra il partito azzurro e la Lega.

Senza Salvini il centrodestra resterebbe tale. Senza Tajani sarebbe anche ufficialmente solo destra.

LA SQUADRA CHE DOVRÀ giocare la partita, e dovrà iniziare a farlo subito perché le europee saranno già una prova senza rete, è calibrata con i 4 vicesegretari in modo da non scontentare nessuno.

Occhiuto è l’uomo di Tajani e dunque sarà probabilmente il “sostituto”, un po’ più vice degli altri.

Bergamini è vicinissima alla famiglia, che continua a essere azionista di maggioranza.

Benigni rappresenta Marta Fascina: la aspettavano tutti, non si è presentata.

Cirio, infine, è l’uomo degli amministratori, quanto di più vicino alla componente di un partito normale ci sia ancora oggi in Fi.

Al benemerito Schifani potrebbe toccare la presidenza: un omaggio al passato.

L’avversario della squadra così composta, anche se nessuno lo ammetterebbe, è Salvini. «Possiamo portare il modello italiano in Europa», si lancia la premier ma il Ppe, di cui Fi è parte essenziale, è di parere diverso. Weber si lancia a testa bassa contro «i populisti burattini di Putin», si scaglia contro i compagni di eurogruppo del leghista e se evita di nominare il Carroccio è come se lo facesse.

Occhiuto, governatore della Calabria e papabile supervice, si esalta di fronte alla folta platea: «C’è più gente qui che dalla Lega». I leghisti la prendono malissimo: «Sgradevole affermare di aver imparato da Berlusconi, grande amico della Lega, e poi attaccare gli alleati».

LA TENSIONE È ALTA. La mazzata del terzo mandato bocciato è indigeribile. Salvini medita di riprovarci in aula subito, soprattutto se la Sardegna punirà Meloni, o forse, tanto per non andare di nuovo a sbattere, tra un paio di mesi.

Il duello nelle urne è inevitabile e Tajani nel colpaccio che lo incoronerebbe davvero, il sorpasso sulla Lega, un po’ ci spera. Forse più che solo un po’.