Visioni

Forza e fragilità, la musica analfabeta di Jacopo Benassi

Forza e fragilità, la musica analfabeta di Jacopo BenassiJacopo Benassi – foto di Manuela De Leonardis

Incontri Il fotografo performativo ligure parla del suo lavoro e della mostra «L’autonomie de la nature». Un approccio punk che nasce dall’esperienza nel mondo dell’underground

Pubblicato circa un anno faEdizione del 16 novembre 2023
Manuela De LeonardisDEAUVILLE (FRANCIA)

«Ho cominciato il lavoro cercando legni vecchi con cui fare quadri e cornici prima ancora delle foto. A Deauville mi sono posto più come pittore che come fotografo», spiega Jacopo Benassi, nato a La Spezia dove vive e lavora. Invitato come artista in residenza alla 14esima edizione di Planches Contact – Festival de photographie de Deauville (la direzione artistica è di Laura Serani) il fotografo performativo, la cui esperienza artistica nasce nell’ambito della cultura underground e dalla lezione del fotografo Sergio Fregoso, è tornato più volte nella città della Normandia per assemblare le opere per la mostra L’autonomie de la nature, caratterizzate dall’uso di cinghie e tasselli di legno, elementi iconici del suo lavoro scultoreo più recente.

La sega al posto della macchina fotografica: la fotografia sta scomparendo dal suo lavoro?

Il mio è più un rinunciare a far vedere per portare le persone a pensare molto. In realtà, la fotografia è sempre più presente perché mi permette di entrare in maniera più diretta nel mondo dell’arte contemporanea e di stravolgerlo, ma sarà sempre meno visibile. Grazie alla fotografia faccio performance, sculture e anche il lavoro di pittura anche se non sono assolutamente un pittore né mi sento tale. Nasco dalla fotografia e adesso assemblo tutto il mio percorso.

Nel bagno del suo studio ha sede una fondazione sui generis, la Fbi – Fondazione Benassi Iacopo…

La Fondazione è nata per caso. Sì, ho uno studio-casa e in bagno, dove avevo esposto delle fotografie che non sapevo dove altro mettere e un giorno ho avuto l’idea di mandare una mail a Antonio Grulli che è curatore, mio amico e compagno di tante battaglie, nominandolo direttore della Fondazione. Da un gioco è diventato uno spazio che ospita anche delle mostre come quella della Scuola di Santa Rosa di Firenze e, tra le altre, quella di Francesco De Grandi che ha dipinto anche la tazza del water. C’è qualcuno che viene a visitarla apposta! È divertente. Lavoro molto bene quando faccio le cose che non servono a niente. Più che una Fondazione è uno spazio-laboratorio dove si sperimenta veramente. Quello che avviene là lo riporto in quello che si vede qui.

Ancora due parole su questo suo studio che è una sorta di hub sperimentale con strumenti musicali appesi alle pareti…

Non sono un musicista, lo ribadisco. Mi reputo un artista che lavora su vari livelli che però partono tutti dalla fotografia. Amando la musica, da un certo periodo ho deciso di usare tutti gli strumenti non per suonarli ma per caderci sopra e farli suonare, utilizzandoli quasi come simboli. Oggetti che mi accompagnano, ci scontro e suonano. Così è nata la «musica analfabeta» che non ha un controllo. È il non voler imparare e buttare via tutti i libretti d’istruzione delle macchine elettroniche, per suonarle senza cognizione di causa. Quando imparo a suonarle, poi, me ne libero. Una musica che sarà sempre improvvisata. Lo studio è fondamentale perché mi dà la possibilità di elaborare, provare, spaccare, fare. Da qualche anno ho capito che devo perfezionare la mia imperfezione, invece di concentrarmi sulla perfezione che mi stava rovinando. Più mi perfezionavo e più il lavoro non mi piaceva, non lo sentivo mio. Finché un giorno mi è venuto naturale, non l’ho deciso, perfezionare il mio disagio, cioè il mio non saper lavorare. Perciò lavoro senza problemi lasciandomi andare così come sono. Il mio è un modo di operare molto storto, decisamente impreciso, ma alla fine è mio e questo gli dà molto valore.

Ha parlato anche di performance in cui «suonava il suo corpo», in che senso?

Un’opera dell’artista in esposizone, foto di Manuela De Leonardis,

Perchè le prime performance le ho fatte proprio «suonando» con il microfono il mio corpo, era un po’ come rivendicare un’immagine non accettata nel mondo del bello. Mi rendo conto di non essere un adone però mi piaccio e alla fine ho voluto sottolinearlo. Un po’ per conoscermi, è stato quasi un atto politico per uscir fuori dal pragmatismo della bellezza, specialmente della moda. Allora ho cominciato a fare degli spettacoli in cui suonavo il mio corpo e scattavo delle fotografie. Una cosa che poi ho mollato ma che vorrei riprendere adesso che ho più esperienza, cercando una fotografia bella attraverso il movimento del mio corpo. Un progetto nato anche dalla spinta della grande coreografa americana che non ho conosciuto, Trisha Brown, è lei che ha parlato di «cadere e danzare». Questo pensiero mi ha dato la forza di andare avanti e portarlo a termine.

La musica rimane comunque una componente importante nella sua formazione e nella sua poetica…

Durante tutto il percorso della mia vita «punkettona» ho sempre ascoltato musica. Non sono un esperto dell’arte delle sette note ma un po’ la conosco. La scena era quella underground che, tra il 2011 e il 2015, ho portato anche nel mio locale il Club B-Tonic, quando fuggito da Milano, squattrinato, l’ho aperto con i miei soci. Partendo da zero ma con una grande forza, preparavo fanzine con le fotocopie perché la volontà era quella di allestire un locale che si auto-documentasse. Tutto era molto sistematico: cinque foto durante il concerto, il ritratto e la registrazione del live. Ho creato un archivio enorme di musica specialmente underground, di controcultura. Oggi mi sento un po’ uno che rivendica il significato della parola «underground» che era un movimento. Io ci sono nato, è quello che mi ha formato. Nei centri sociali questa controcultura alla fine è stata la mia scuola.

Nella casualità dell’assemblaggio sembra esserci la stessa immediatezza della sua fotografia…

foto di Manuela De Leonardis

Sì, però devo dire che odio pensare. Perciò qui ho creato un’opera e poi l’ho assemblata, un po’ come faccio in studio dove certe volte metto insieme del materiale vecchio. Uso la cinghia che mette forza ma che ha la sensibilità di non spaccare il vetro, perché deve tenere insieme il quadro, poi ci sono i legnetti che rappresentano la fragilità. Se li togli cade giù tutto. Ecco, il mio modo di procedere è questo, forza e fragilità. Nel mio cambiamento artistico devo molto a Augustin Laforêt, mio compagno da dieci anni, che è restauratore e riparando arte con cinghie, tamponi, legni mi ha ispirato molto.

I soggetti di questi ultimi lavori sono cieli, nature e c’è anche l’aragosta…

La natura sono i giardini pubblici che per anni sono stati un mio vestito. Erano un mio nascondiglio. Andavo lì per fare «battuage», perciò anche i giardini che si trovano in queste opere erano parte del mio corpo. La cosa assurda è che nascosti dentro questi parchi pubblici ci sono degli umani, quindi malgrado dica che non fotografo esseri umani, alla fine i miei scatti in quei luoghi sono ritratti di persone che si nascondono. L’aragosta è perché da un po’ di tempo mi ritraggo così. Mi era rimasto impresso un artista di La Spezia, Enrico Filippini, che si era autoritratto come aragosta. Mi piacciono i crostacei. È un animale lento che si nasconde ma cerca un contatto umano. Qui mi sono ritratto come aragosta con le pantofole. Anche le pantofole sono un mio segno. Sono state importanti nel mio percorso gay. Infatti, ho capito di essere omosessuale vedendo il mio vicino di casa in pantofole. Forse il piede nudo nella calzatura ha provocato in me un’eccitazione forte e ho capito che mi piaceva. Da quel momento, però, non le ho più usate perché pensavo che se le avessi messe si sarebbe scoperto che ero gay. È stato un tabù, per anni non ho voluto indossarle.

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