Forquet, l’homme de goût a sé fedele
In occasione della monografia di Federico Forquet (a firma Hamish Bowles) edita da Rizzoli New York Un amico speciale traccia un ritratto intimo e «fotografico» del grande stilista: fra Napoli, Roma e il composto ritiro di Cetona
In occasione della monografia di Federico Forquet (a firma Hamish Bowles) edita da Rizzoli New York Un amico speciale traccia un ritratto intimo e «fotografico» del grande stilista: fra Napoli, Roma e il composto ritiro di Cetona
Il pensatore José Ortega y Gasset scrive che il fatto più misterioso della vita di un uomo non è tanto la sua lotta col mondo quanto quella con la sua vocazione. È difficile restare fedeli a sé stessi: infinite sono le deviazioni, le tentazioni, gli incontri fuorvianti. La fedeltà dunque non è più rinuncia che scelta, una scelta che non dipende tanto dalla nostra volontà quanto dalla nostra natura: indovinare, nella selva oscura di ogni vita, il sentiero giusto.
La leggerezza – lo insegnano i grandi esprits del Settecento – deve essere molto seria. Conosco da quasi sessant’anni (di già?) Federico Forquet e sono sempre state queste le prime idee che mi passano per la testa se penso a lui. Ma che cosa fa questo giardiniere, creatore di spazi per il vivere civile, maestro di scelte di oggetti evocativi? Non è un decoratore eppure ha come pochi l’arte di addobbare case, sue e non sue. Non è un antiquario anche se sa scegliere per sé e per gli amici arredi perfetti, adeguati al personaggio che ognuno ha dentro di sé. Non è un botanico né tantomeno un agricoltore sebbene sappia accostare piante rare ad altre umili, essenze esotiche ad arbusti comuni, rispettando la natura che lo circonda. È tutto questo e anche molto di più, senza dimenticare come egli sia stato un celebre disegnatore di moda. Ma i tessuti che modellava, più che vestiti, mi apparivano idee architettoniche imposte al vivere quotidiano di creature senza tempo.
Come definirlo allora? Un homme de goût, forse. Federico non è un rivoluzionario ma un uomo pieno di rispetto per il passato e non pretende di imporre agli altri la luce della sua stella. Vuole, penso, riscoprire più che scoprire, impossessarsi di sensibilità antiche, farle sue attraverso un gioco di immedesimazione e di studio benché il suo modo di studiare sia più visivo che libresco. Del mondo classico ci sono infinite rimembranze e infiniti contatti nella sua vita e nella sua memoria. Non a caso è nato a Napoli e risiede da molti anni a Roma. A Napoli lo conobbi nel 1960 presentato da un comune amico, Harold Acton. A Roma lo rivedo molto spesso fin da quando mi trasferii nel 1971.
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Per quasi tre anni Federico venne a lavorare con alcuni amici (Raffaello Causa, Nicola Spinosa, Federico Zeri, Sir Anthony Blunt e chi scrive) alla preparazione della mostra sul Settecento a Napoli indovinando quale poteva essere l’allestimento giusto. Mi rivedo ancora, martello e chiodi alla mano, aiutare Federico ad attaccare quadri e a sistemare le poche vetrine che avevamo.
In un andito oscuro del Palazzo Reale, trovai una scatola che aveva contenuto bottiglie; il coperchio lasciava intravedere l’effigie a grandezza naturale della testa della regina Maria Carolina. Era una scultura a mezzo busto in cera colorata, di un iperrealismo esasperato. Mi resi conto che faceva parte di una serie di lavori di Josef Müller, comprendenti i ritratti reali, opere che per la loro crudeltà descrittiva e un eccesso di ritocchi erano indiscrete oltre che inquietanti. La testa della regina era in perfetto stato ma aveva perso la parrucca. Federico era incerto su come risolvere il problema, non solo per la mancanza di fondi ma anche perché una parrucca moderna avrebbe conseguito un aspetto grottesco. La natura volle che dovesse andare alla toilette: ritornò raggiante con i resti di una orrenda sottoveste lasciata in quegli ambienti chissà da quanti anni. Tolta polvere e ragnatele, ritagliò quel che occorreva per formare in pochi istanti una cuffietta che sistemata attorno al cranio calvo della regal signora, ottenne un effetto del tutto convincente. È rimasta tale e quale fin da allora.
Quella non fu la sola mostra allestita insieme. Fasto romano si tenne nel 1991 a Palazzo Sacchetti; Luigi Valadier. Un genio della Roma del Settecento, ebbe per sede Villa Medici nel 1997.
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Federico ha abitato sulla salita di Sant’Onofrio in un appartamento a due piani decorato come un palazzo neoclassico in basso e come una serra in alto. Il terrazzo era cornice di una delle vedute più ampie della città: mancava San Pietro, ma trecento cupole salutavano il visitatore in un rincorrersi di campane, con l’ansa sinuosa del Tevere ai piedi, la mole solenne di Castel Sant’Angelo sulla sinistra e a destra San Pietro in Montorio e il fontanone dell’Acqua Paola. Amavo quella casa colma di begli oggetti, dove scintillavano l’oro dei bronzi, l’alba dei biscuit, la notte del mogano.
Federico ha il dono di estrarre da ogni cosa la dolcezza vitale: ignorare il dolore e l’inesorabile negatività di buona parte delle cose umane è un’arte che si coltiva con difficoltà e non è esente, ammettiamolo pure, dal concime dell’egoismo. Il commercio con le creature che hanno tale capacità non solo è piacevole ma anche benefico. Se i violini di Federico davano un tono leggero alla conversazione, le viole e i contrabbassi del suo buon amico Matteo Spinola conseguivano un sottofondo più cupo, a cui non mancava uno spirito graffiante.
Federico, napoletano fedele, ama la sua montagna, il Vesuvio. Quando comprò una veduta di quel vulcano eruttante fuoco Matteo mi chiamò dicendomi : – Vieni a vederlo domani, è felice col suo Krakatoa.
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Un paio di giorni a Cetona, ospite di Federico. Il paesaggio è bello come quelli dipinti in certi quadri fiorentini dei tempi di Fra Angelico e di Benozzo Gozzoli. C’è una compostezza nei cipressi che fanno da sfondo alle mura rese materne alla luce del crepuscolo. Qui non c’è il fondale cesareo di Roma né quello pagano di Napoli ma un’atmosfera intima. I giardini a terrazza seguono il declivio, uno diverso dall’altro, uniti da scalini muschiosi e da cornici di bosso, di lauro e di rose.
Cetona, per Federico, ha voluto dire animali umili, paesaggi ombrosi, una maggiore introspezione, il rispetto per la solitudine. Questi sentimenti, insinuatisi nel suo cuore lentamente, hanno abbassato i timpani dell’Impero e ridimensionato le durezze del porfido fino a stemperarli in un’aura affettuosa. Nulla è stato rinnegato ma ogni cosa appare amabile.
Avranno contribuito anche lunghi soggiorni a Londra? Nessuno meglio degli inglesi sa nascondere l’eleganza con vesti semplici, talvolta persino trasandate dando a tutto un tono casuale. Ogni cosa sembra lì dove ora è per caso mentre invece lo è pour cause, ma il segreto della vita è far diventare le proprie inclinazioni inevitabili, appunto. La vera lotta dell’uomo è dunque con la sua stessa vocazione per riuscire a trovare sé stesso nonostante sé stesso. Il lusso, la magnificenza dell’antichità sono parti integranti della natura del nostro amico ma non sono necessariamente la sua vocazione. Chi lo conosce bene finirà per capire che egli è più vero quando è a colloquio con la pianticella che sistema in un’aiuola accanto ad un cagnolino salvato da sicura morte lungo l’argine di una strada di campagna e ora compagno riconoscente.
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