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Fornasetti, la matematica del meraviglioso

Fornasetti, la matematica del meravigliosoPiero Fornasetti, un piatto della serie "Tema e Variazioni", cominciata nel 1952

"Fornasetti. Memorie del futuro", Rizzoli Surrealista? Sicuramente non nell’ordine metodico entro cui ingabbia, tra anamorfosi e «trompe-l’oeil», le sue capricciose presenze. Il decoratore milanese rivisitato dal figlio Barnaba

Pubblicato 5 giorni faEdizione del 29 settembre 2024

Se dovessimo giudicare dall’emozione che suscita, l’arte di Fornasetti – che possiamo ammirare adesso in un eccellente catalogo curato dal figlio Barnaba – Fornasetti Memorie del futuro (Rizzoli, pp. 320, euro 85,00, cartonato) – dovrebbe imparentarsi con quella dei surrealisti. Surrealistico il gusto dell’accostamento insolito di un materiale comune, che poteva comprendere anche vecchie stampe ottocentesche, giornali o illustrazioni di feuilleton, come quelle da cui Max Ernst ricavò il suo Rêve d’une petite fille qui voulut entrer au Carmel e Une semaine de bonté ou les sept éléments capitaux, e surrealistica la dimensione alla quale questi oggetti, che sembrano offrire in una chiave allucinatoria gli schemi del Serlio e di Bibbiena, aspirano.

 

Piero Fornasetti, “Gatto”, anni cinquanta-sessanta, ceramica nera lumeggiata in oro

Breton aveva additato agli artisti la crosta d’uniforme ovvietà che ricopre il quotidiano perché la rompessero. Fornasetti toglie la prevedibilità dallo spazio domestico e lo popola d’indiscrete presenze, sornione e occulte, come quelle che sussurrano nelle selve incantate dei racconti di fate. Volti spiano dai vasi, occhiute farfalle si moltiplicano nei vassoi, frammenti di telamoni si assiepano sotto rovine di città mentre le camere si vanno aprendo, trasformando, nella maniera che si vede in certi disegni di Savinio. Il ricorso alle anamorfosi, agli specchi, ai trompe-l’oeil lo apparenta inoltre a quei prestigiatori barocchi che hanno fatto la delizia di studiosi del genere di Jurgis Baltrušaitis, mentre la qualità fantasmagorica dei suoi interni risulta accresciuta da «quell’effetto di leggerezza – sono parole di Giò Ponti – che dà la stampa» applicata sulle superfici curve dei mobili, dei vasi e dei portombrelli, un procedimento grazie al quale i motivi decorativi prendono la fuggevolezza del riflesso. È un universo fatto di collages, di giustapposizioni e di frantumi.

E tra le citazioni presenti nel volume – che è una sorta di fornasettiano libro nel libro composto d’una vertigine di brani, saggi, ricordi – ve n’è appunto una di Ettore Sottsass che descrive perfettamente questo aspetto: «Credo che Fornasetti un giorno, quando era giovane, abbia avuto una visione allucinante. Non so se di giorno o di notte, ma deve aver visto, all’improvviso, tutto il mondo che saltava per aria, tutto il mondo e tutta la storia del mondo e tutti i depositi di figure e memorie, e tutte le pietre, i corpi, gli alberi, le case, i monumenti (…) se doveva camminare sul terreno di una sorta di discarica informe di frammenti, di brani, di segni senza collocazione, bene, lui ci avrebbe camminato volentieri». Frammenti che servirono a Fornasetti, invece che per puntellare le proprie rovine, come recitavano i versi di Eliot, a edificare un reame minuzioso e fantastico.

C’è chi ha pensato, come Patrick Mauriès, a Piranesi; e in effetti l’immagine adoperata da Mario Praz per il grande incisore di «un uomo primitivo, un archetipo, che s’affaccia all’improvviso tra le rovine d’una civiltà sommersa» si potrebbero adattare altrettanto bene a Fornasetti, con la sola precisazione che i lacerti della storia, i capitelli spezzati e i muscolosi telamoni delle sue invenzioni sembrano fluttuare, svuotati di pathos, su un universo geometrico e metafisico, simili a quelli che il suo amico Gio Ponti ideava per i piatti di Ginori.

Vediamo, mentre sfogliamo il volume, le varie forme copiate e reinventate dall’artista con una ironica grazia mimetica: molte sono vestigia classiche, altre alludono invece a Morandi, a Carrà, a Magritte, al Picasso del periodo rosa, e c’è persino un serpentello che richiama alla memoria il drago del Ruggero e Angelica di Böcklin. Si tratta di figure combinabili all’infinito, o, meglio, in una finitudine di modi che, al pari dei chicchi della leggenda sulla nascita degli scacchi, s’avvicina all’innumerabile. Scivolano sui comodini, sui trumeaux, sulle scrivanie, sui paraventi senza, tuttavia, modificarne i volumi, giacché questo stile, all’apparenza sbrigliato e capriccioso, non giunge mai, come fanno il rococò o l’art nouveau, ad offendere il buon senso con tortuosità ingiustificate (e in ciò, se un gusto ricorda, è quello Impero): invece che imporsi sulla struttura, le creazioni fantastiche sembra vi galleggino sopra, senza mescolarvisi, come l’olio non si mescola all’acqua.

Fu ancora Gio Ponti a notarlo in uno dei testi riportati: «la stamp – scrisse – non contamina il volume, nello stesso tempo però (per un amore degli occhi, per l’incanto della lettura che ci rapisce sguardo e mente e che fa dimenticare i volumi: perché l’occhio legge e non misura) questa decorazione rende incorporea la forma e diventa un elemento allusivo; che traspare tutto nel fantastico». E come nel suo rapporto con la struttura, così anche nella decorazione in sé, sebbene sia tanto bizzarra all’apparenza, non v’è spazio per l’incontinenza immaginativa dei surrealisti, indotta dal divino invasamento della droga o della trance. No, se un Dio presiede agli smagati e fiabeschi collages di Fornasetti, questi non è Dioniso, bensì Minerva, divinità cara a quanti, come lui, rivendicarono sempre il momento costruttivo e artigiano del proprio lavoro.

Immaginazione matematica, dunque: la medesima che governa il principio musicale del tema e della variazione (che è anche il titolo della sua più celebre serie di piatti). Chi gli domandò, d’altra parte, cosa volesse dire «immaginare» si sentì rispondere: «saper utilizzare gli strumenti che abbiamo a disposizione per ottenere il risultato che ci interessa. E sempre per la via più breve».

Di primo acchito, il suo è un regno fiabesco, poi lo si guarda più attentamente e si vede che la sua illogicità è parente di quella di un Lewis Caroll, ed è costituita di tali paradossi e calibrati rovesciamenti che non ci stupiamo più se, tra i documenti offerti in queste pagine, troviamo alcune fotografie del suo studio dalle quali è facile intuire l’ordine certosino e metodico con cui queste citazioni, questi motivi visivi, provenienti dall’arte del passato, erano catalogati: c’è qualcosa di più lontano dall’orgia un po’ fumista dei cadavres exquis?

Fornasetti amava collezionare le carte da gioco, i libri antichi e le incisioni, che compaiono come elementi decorativi soprattutto negli anni quaranta e cinquanta in tavoli, vassoi e perfino nei tessuti: le stesse immagini di statue, d’archi e fontane hanno il limpido rigore delle immagini impresse sui tarocchi. Dalla loro combinazione emergevano contrade irreali, storie innumere e possibili come quelle narrate da Calvino ne Il castello dei destini incrociati, la cui prima edizione, pubblicata da Franco Maria Ricci nella collana «I Segni dell’Uomo», aveva le tavole del mazzo visconteo di Bergamo e New York applicate a mano.

Lì come qui il fantastico nasce dalla regola, dall’ordine e dalla matematica combinatoria: «Girando queste stanze piene di Fornasetti – sono ancora parole di Gio Ponti – si ha anche un’altra impressione, altrettanto forte di quella dell’acrobatica ricchezza di immagini: ogni oggetto è estremamente ben finito, pulito, lucidato, ordinatamente appeso, allineato o infilato in una propria scatola foderata di panno (…) Ma si capisce poi che questa perfezione finale appartiene invece allo stesso processo dell’invenzione e dell’esecuzione delle immagini (…), al meccanismo ordinatore e moltiplicatore della fantasia».

Nulla di romantico o scapigliato, dunque, ma una vertigine generata dalla ragione, così come lo sono i Cent mille milliards de poèmes di Queneau, così come lo sono molti dei racconti di Borges.

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