Pochi mesi prima di dare avvio al commento alla Commedia che lo avrebbe consacrato come il più acuto fra gli antichi interpreti danteschi, Benvenuto da Imola scrisse una lettera all’ormai anziano Petrarca. Di questo documento oggi non è rimasta traccia, ma grazie alla risposta di Petrarca, redatta il 9 febbraio del 1374, è possibile ricostruirne i contenuti. Soprattutto, si intuisce quale preoccupazione aveva spinto il maestro imolese a rivolgersi all’intellettuale più influente del suo tempo: Benvenuto sperava che Petrarca lo aiutasse a risolvere un dubbio radicale, che evidentemente proiettava un’ombra sul progetto di commentare un’opera di poesia come la Commedia. L’inquietudine di Benvenuto traeva origine dalla celebre scena iniziale della Consolatio Philosophiae di Boezio: la cacciata delle Muse poetiche per mano della Filosofia. Possiamo immaginare che le domande rivolte a Petrarca fossero, nella sostanza, simili a queste: «Perché la Filosofia afferma che le Muse costituiscono una minaccia per Boezio? E perché le definisce come ‘sgualdrinelle da teatro’ (scenicas meretriculas)? Quale conclusione bisogna trarne? Che la poesia è nemica della verità?».
Petrarca, forse infastidito dal fatto di dover tornare su un argomento a cui si era già dedicato anni addietro, rispose in modo sbrigativo: «Non cambio parere: tutto ciò che Boezio dice giustamente contro i poeti è da riferire ai soli poeti teatrali (scenicos)». Ma chi sono, per Petrarca, i ‘poeti teatrali’? E cosa li rende degni di biasimo? In passato egli aveva ribattuto a interlocutori assai meno concilianti di Benvenuto: costoro avevano impugnato il trattato di Boezio proprio per negare che poesia e verità potessero coesistere. È il caso del medico contro cui Petrarca indirizzò, a partire dal 1352, le sue violente Invettive. Qui la censura boeziana, evocata dall’avversario per affermare la superiorità del sapere scientifico sulle arti poetiche, è di nuovo circoscritta da Petrarca alla sola poesia ‘scenica’, da intendere però in senso lato – ecco il punto fondamentale – come la poesia che non rifugge l’instabilità delle cose terrene. La poesia ‘dei teatranti’ è, nei fatti, la poesia delle passioni e delle contingenze: e i poeti che disprezzano le une e le altre, conclude Petrarca, la detestano non meno di Boezio.

L’essenza non terrena del vero bene
La riflessione sulla poesia alimentata nel tardo Trecento dalla Consolatio Philosophiae muove dal significato profondo del libro boeziano: «la necessità dell’indipendenza totale dell’uomo di fronte alla realtà» e alle forze caotiche che la abitano. Queste parole provengono dall’introduzione di Fabio Troncarelli all’edizione del trattato di Boezio da lui recentemente curata (Boezio, La consolazione della filosofia, Bompiani «Il Pensiero occidentale», testo latino a fronte, pp. 564, € 40,00). Esposto a una sicura condanna a morte, Boezio si affida al dialogo con la Filosofia affinché essa metta la sua anima al riparo dalla sofferenza, ossia, in termini più sostanziali, dal dominio della fortuna: il senso ultimo degli insegnamenti della Filosofia boeziana coincide infatti con l’affermazione dell’essenza non terrena del vero bene. Da ciò deriva anche la definizione di un linguaggio che sia impermeabile ai fantasmi della realtà sensibile: «felice chi ha sciolto il laccio che ci lega alla greve terra», si legge in uno dei carmi centrali dell’opera. Come si comprende, la Filosofia che istruisce Boezio non è nemica della poesia in quanto tale: tra gli elementi di maggiore originalità della Consolatio, risalta proprio la sistematica combinazione di prosa e versi. Ma i carmi intonati della Filosofia non concedono nulla alle seduzioni del vissuto: la poesia praticata dalla Filosofia di Boezio trasmette in forme dilettevoli le verità immutabili dei numeri e delle cause. Su un piano etico, il riconoscimento del carattere fallace dei valori mondani motiva un atteggiamento di serena indifferenza alla loro mutabilità; su un piano poetico, sancisce la loro esclusione dal campo degli argomenti degni di essere rappresentati.
È noto, del resto, che le prime pagine del trattato di Boezio ripropongono l’antica condanna platonica della poesia che imita ogni aspetto della vita. I poeti che eccellono nella mimesi meritano secondo Platone le più alte lodi; dopo essere stati encomiati, essi devono tuttavia essere espulsi dallo Stato, poiché la loro arte, riproducendo senz’altro la varietà del mondo, espone gli individui a una molteplicità di sollecitazioni in cui l’onestà morale convive disordinatamente con il proprio contrario. A riscontro, il Boezio della Consolatio si presenta al lettore come la vittima di un’espressione poetica indistinguibile dalle passioni che ne sono all’origine. Nel carme che apre il libro, le Muse suggeriscono a Boezio versi nei quali la descrizione del dolore finisce per produrre nuovo dolore, non meno vero: «Ecco, mi dettano ciò che scrivo le Camene | e le elegie di vere lacrime mi rigano il viso».
Il giusto ingiustamente perseguitato
L’attenzione alla storia della ricezione della Consolatio Philosophiae è uno dei principali motivi di pregio di quest’edizione. Nel saggio introduttivo, che con il suo ampio respiro compensa la sporadicità delle note al testo, Troncarelli esamina con uno scrupolo speciale – e non senza un’adesione alla materia che si fa di tanto in tanto appassionata – le prime fasi della fortuna del trattato. Boezio fu trucidato dagli emissari di Teodorico nell’estate del 525. Non v’è dubbio che l’accusa di aver agito contro il sovrano fosse del tutto infondata. Essa continuò tuttavia a pesare negli anni immediatamente successivi alla morte del filosofo, se è vero che la più antica diffusione della Consolatio avvenne in silenzio: Cassiodoro, legato alla corte teodoriciana, allude allo scritto di Boezio già in una lettera del 533, ma senza citarlo in modo esplicito.
Le cose cambiano con la fine del regime dei Goti. È lo stesso Cassiodoro ad allestire la prima edizione della Consolatio, ed è notevole che nella prefazione al testo egli si dimostri reticente circa il contesto politico in cui questo prese forma. Le ragioni sono chiare: «piuttosto che rivelare particolari drammatici dell’esecuzione di Boezio, che potrebbero testimoniare la sua complicità», Cassiodoro preferì «rimanere del vago» (così Troncarelli). La vicenda boeziana assume in tal modo, fin dalle origini, i contorni di un paradigma assoluto: si consacra come l’esempio metastorico del giusto ingiustamente perseguitato che affronta con cristiana pazienza l’aggressione del mondo.
In epoca carolingia, la Consolatio Philosophiae sarà spesso trasmessa insieme ai trattati morali della tradizione stoica, come il De amicitia di Cicerone. Proprio la Consolatio e il De amicitia sono i primi testi filosofici letti da Dante dopo la morte di Beatrice, stando al racconto del Convivio. Ma l’influsso di Boezio si avverte già nella Vita nuova, quando Dante stabilisce di trattare nei suoi versi solo di ciò che «non … puote venire meno». Come ha osservato Elisa Brilli qualche anno fa, il modello boeziano ha un ruolo decisivo anche nell’elaborazione dell’autobiografia dantesca. Il medaglione dedicato nel Paradiso al filosofo romano – l’«anima santa che ’l mondo fallace | fa manifesto a chi di lei ben ode» – lascia intravedere un autoritratto del poeta esiliato dai suoi concittadini: «lo corpo ond’ella fu cacciata giace | giuso il Ciel d’auro, ed essa da martiro | e da essilio venne a questa pace». Commentando questi versi, Benvenuto da Imola, oramai rassicurato da Petrarca, può procedere senza esitazioni. Anche la poesia di Dante, come quella di Boezio, è estranea a ogni compromissione con le contingenze: l’una e l’altra nacquero al contrario per mostrare «quale sia la falsa felicità, e quale sia invece quella vera; e come i beni terreni non offrano agli esseri umani alcun conforto durevole».