Alias Domenica

Forme di vita mistificate

Uomini e animali Un clamoroso trucco filosofico individuato da Felice Cimatti

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 3 novembre 2013

Il senso comune fornisce un’immagine degli animali molto più precisa e piena di teoria di quel che potremmo sospettare. Nel linguaggio quotidiano l’aggettivo «animalesco» fa riferimento a un comportamento brutale e smodato. L’ultimo libro di Felice Cimatti, Filosofia dell’animalità (Laterza, pp. 196, euro 12,00) ha l’obiettivo di combattere alla radice, distruggendola, questa immagine: dell’«animalità» e non «degli animali» perché a dire il vero «gli animali» – questa la tesi affascinante – «non esistono». Esiste piuttosto una molteplicità di forme della vita, le più diverse, che poi chiamiamo vespe e tirannosauri, pesci-gatto e gatti che non sono pesci.

La parola «animale» cela in sé il più clamoroso dei trucchi filosofici perché ambisce a riassumere in una sola categoria viventi che tra loro non hanno nulla in comune, se non l’essere forme del non umano. Il termine «animale» non è dunque innocuo, non è analogo a «bicicletta» o «sassolino», parole che cercano con modestia di definire un certo gruppo di cose. È più affine a voci burocratico-legislative, a invenzioni ampollose come «extracomunitario».

L’extracomunitario è prima di tutto un «non»: qualcuno che non ha cittadinanza di uno Stato della comunità europea, un non europeo. Chi è l’«animale»? È un «non»: è colui il quale non vogliamo sia trattato come un essere umano. Come «extracomunitario» è una barriera escludente più che un termine descrittivo, quella di «animale» più che una categoria è definibile come un insulto filosofico (Aristotele, sempre all’avanguardia, dà al sofista non «dell’animale» ma addirittura «della pianta»). Ecco la ragione per la quale il libro lavora su una nozione diversa, volutamente volatile: «animalità» si riferisce a una condizione ubiqua che mira a erodere distinzioni. La vita dei sapiens, del resto, è una costruzione linguistica. È grazie alle parole e a quel che esse producono che si crea uno iato tra gli umani e ciò che li circonda: questa frattura è quanto impedisce ai sapiens di avere una relazione immediata anche, o soprattutto, con loro stessi.

Contro una parte consistente della filosofia occidentale (Heidegger è il bersaglio preferito), Filosofia dell’animalità vede in questa frattura non tanto una risorsa quanto un limite cronico e profondo. Una delle ragioni per le quali il nostro comportamento risulta tanto distruttivo verso le altre forme della vita sarebbe mosso allora da una rabbia invidiosa. Uccido quell’animale, quel cavallo o quel salmone, non tanto per cibarmene quanto per uccidere la possibilità di un’esperienza liberatoria che si propone qui, davanti ai miei occhi. Non voglio uccidere un semplice nemico, voglio uccidere una dimensione della vita, anche della vita umana, nella quale il mio rapporto con i dintorni non sia più all’insegna delle parole, della frattura causata dal linguaggio. Come si fa a mettere in pratica quel che, rifacendosi a Deleuze, Cimatti chiama «divenire-animale» e superare lo iato che nella nostra vita sarebbe introdotto dalle parole? È qui che entra in scena un ospite quanto mai sorprendente: la psicoanalisi o meglio una rilettura radicale dell’opera di Sigmund Freud e di Jacques Lacan. Per mezzo delle parole la psicoanalisi tenta un superamento della parola: un cura fatta solo di linguaggio cerca di aiutare il paziente a riabbracciare la propria vita con pienezza, una pienezza che vada oltre la parola. L’animalità di secondo ordine cui si riferisce questo libro mira a qualcosa di analogo: non il semplice regresso alla riscoperta del cucciolo che sarebbe in noi, quanto la ricerca sperimentale di un superamento che raggiunga un’adesione alle cose senza filtri.

Quel che Cimatti considera la più radicale delle forme di immanenza è una vita che sia costruzione di una singolarità unica, tanto singolare da non limitare il processo che ci rende noi stessi al solo ambito di ciò che oggi è definito come proprio dell’umano. Un’avvertenza dunque. Si tratta di una conquista sperimentale: tutt’altro che grandiosa, spesso strampalata. Non importa sia Joyce che scrive inventando una lingua tutta sua o Temple Grandin la zoologa che, grazie al proprio autismo, riesce a trovare nuove forme di incontro con mucche destinate al macello. L’importante è farla finita con la simpatia caritatevole per animali che in fondo sarebbero «un po’ come noi»; farla finita con forme più o meno velate di trascendenza in cui celare sotto mentite spoglie angeli custodi, ovvero come li definisce causticamente Cimatti, «poliziotti che non hanno bisogno del manganello».

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