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«Forever Young», l’avventura appassionata della giovinezza

«Forever Young», l’avventura appassionata della giovinezzaUna scena di «Forever Young»

Al cinema Il film di Valeria Bruni Tedeschi racconta la sua esperienza alla scuola di teatro di Patrice Chéreau. Il vissuto e la pratica artistica, gli anni Ottanta, la scoperta dell’aids

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 1 dicembre 2022

La vita è la materia di Valeria Bruni Tedeschi, la propria che con i suoi detour e le sue nevrosi, le strade sentimentalmente impervie e le catastrofi riesce a racchiudere nel divenire narrazione quanto accade o potrebbe accadere a chiunque seppure in contesti diversi e in situazioni non immediatamente condivisibili. Nell’autofinzione che attraversa molto cinema francese la sua ha una cifra che riesce a sempre a sorprendere, e appunto a farsi esperienza condivisa grazie a un punto di vista che è pervaso di un’ autoironia mai compiaciuta.

DI QUESTA vita ce ne è moltissima in Les Amandiers che arriva nelle sale italiane – dopo il concorso al Festival di Cannes – col titolo Forever Young, lasciando quello forse più difficile da identificare dell’originale francese in cui si rimanda al Théâtre des Amandiers a Nanterre di Patrice Chéreau e Pierre Romans. luogo e paesaggio sentimentale del film, dove è cresciuta una intera generazione di attrici e attori del cinema francese – oltre a Bruni Tedeschi Agnes Jaoui, Vincent Perez, Bruno Todeschini, Marianne Denincourt….. Ma in fondo questo è Forever Young, un racconto della giovinezza, quella della regista e dei suoi amici e amiche coi quali ha condiviso un’esperienza di formazione artistica che intrecciava il vissuto alla creazione, ne faceva l’ispirazione, la materia e grazie alla distanza della messinscena restituiva tutta la sua verità. Lo spazio dell’immaginazione, dell’arte è infatti uno spazio libero che non può essere piegato a norme e codici: lì tutto si può e si deve permettere.
È dentro a questa stessa libertà che si pone la «memoria» di Bruni Tedeschi nel rivivere (meravigliosamente) quel periodo senza piegarlo al presente – che forse se ne farà persino scandalizzare – dentro alla leggenda di quel teatro che attraversa gli anni ottanta e che dà a un gruppo di ragazze e di ragazzi di vent’anni la possibilità di un’esperienza e di una pratica artistica mai sperimentate, folli forse, estremi, che impongono un allenamento ai sentimenti non solo sul palcoscenico e che creano una comunità.
Eccoli allora tra corse in auto, fantasie erotiche (fare l’amore nei confessionali), relazioni senza filtri; e l’eroina, i rapporti tra maestri e allievi che «rischiano» confini inammissibili, la scoperta dell’aids, i test col cuore in gola, le scuse disperate per farsi dare al telefono le risposte – «sono su un set di Bertolucci». La paura a cui si oppone la voglia di vivere indocile, sempre pronta a lanciarsi nel movimento delle cose senza regole né schemi. E il carico di pena e di angoscia, gli amici che si ammalano, il lutto, la perdita, la fine dell’assoluto e la sconfitta nella sfida di proteggere qualcuno che si ama.
È un film bellissimo Forever Young per questa sua temperatura di emozioni, amore, vissuto mai retorica come raramente ormai capita di vedere al cinema con cui Bruni Tedeschi raggiunge una compiutezza segnando anche un passaggio nuovo nella propria ricerca.
La vita vi è esplosa nuovamente questi giorni con le accuse di violenza e stupro mosse da alcune sue ex-fidanzate al protagonista, il venticinquenne Sofiane Bennacer. A rivelare la vicenda è stato il quotidiano francese «Liberation» che con l’inchiesta in corso ha «sbattuto» Bennacer in prima pagina di fatto già condannandolo. Per carità, è giusto informare, dire, rivelare – l’attore è stato subito cancellato dalle nomination dei Césars – così come sostenere chi denuncia abusi; ma questa esibizione no, non si sopporta, perché va oltre la giustizia ed è come se siglasse una sentenza prima di essa. È chiaro che se c’è stata violenza nessuno lo difenderà e dovrà pagare – ma per avanzare in rapporti più equi la presunzione di innocenza dovrebbe essere garantita (contro ogni «scoop») .
Forever Young dunque che senza nostalgia si confronta col passato ed è un film al presente, e tocca nelle sue due ore ogni stato d’animo possibile nel dirci il rapporto tra l’attrice e regista col mondo, tra reale e finzione. Siamo nel 1985 dei Rita Mitsouko, del primo gruppo di quaranta ragazzi selezionati ne resteranno dodici, lacrime e grida alla lettura della lista degli ammessi, una non ammessa rimarrà come cameriera al bar del teatro: «Lo sai chi è seduta laggiù? Catherine Deneuve e mangia una bistecca» dice agli altri.

ALCUNI di loro andranno in scena diretti da Chéreau nel Platonov di Cechov – un testo come dice il regista sulla giovinezza, nel suo metodo lui distrugge i narcisismi – anche chi ha un ruolo minuscolo è fondamentale. Stella è bionda e con una sensibilità fragile (è la splendida Nadia Tereszkiewicz che incarna la stessa Bruni Tedeschi), dal primo giorno è divenuta amica di un’altra ragazza, Adele, un po’ fassbinderiana, poi si è innamorata di Etienne (Bennacer). Lui è proletario (l’ispirazione è il fidanzato della regista di allora, morto di overdose), lei ricchissima, principessina in un castello col maggiordomo che le asciuga le lacrime e la rimprovera sulla decisione di essere attrice dicendole che diventerà pazza e morirà da sola. Etienne è seducente e eroinomane, la usano in molti alla scuola l’eroina con altre droghe, le siringhe passano da uno all’altro, nascono amori un po’ tra tutti come accade quando si condivide giovani un’esperienza assoluta e un quotidiano di desiderio.

CON UNA PICCOLA Austin rossa Stella, Etienne, Adèle, Victor – che ha appena avuto un bambino – bucano i semafori rossi, selvaggi e incoscienti, spericolati e pieni di passione, sempre in bilico tra lacrime e sorrisi, in un’ esposizione del proprio cuore a volte persino troppo rischiosa. La vita sono le lezioni, le prove, New York e l’Actor Studio, i nuovi e imprevedibili agguati dell’esistenza.
Il film nasce da un suggerimento come Bruni Tedeschi ha spesso raccontato del suo amico, l’attore e regista Thierry de Peretti, la regista ha lavorato alla sceneggiatura con Noemi Lvovsky e Agnes de Sacys puntando più sulla dimensione personale e sulla restituzione di un’epoca ancora incosciente (colonna sonora perfetta) che sulla figura di Chéreau lasciata fuori campo – nel senso che non è lui il centro del racconto pure se ne costituisce la fascinazione centrifuga: capriccioso, irritabile, spesso duro – è «evocato» da Louis Garrel – ma capace di cogliere l’istante di debolezza e di esserci, di stare accanto anche con un piccolo gesto – Bruni Tedeschi sarà la sua attrice prediletta a teatro e nei film come Ceux qui m’aiment prendront le train (1998).
Lei, Bruni Tedeschi, non c’è – a parte una velocissima apparizione nella commissione che seleziona gli allievi, un gruppo di giovani interpreti tutti bravissimi, Micha Lescot, Clara Bretheau, Lena Garrel – ma al di là del suo essere fuori dall’inquadratura è rispetto a altri film si prende una diversa distanza in cui i toni sfumano nella tenerezza per un’innocenza e per la sua utopia: qualcosa di irripetibile, un romanzo di formazione vissuto insieme.

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