Fontana, il montaggio delle attrazioni spaziali
A Milano, Hangar Bicocca, "Ambienti/Environments" di Lucio Fontana Finalmente ricostruiti gli «Ambienti» che lo scultore italo-argentino realizzò dal 1949 all’anno di morte 1968: ludici, sconcertanti, perfino mistici, ci fanno entrare immersivamente in un viaggio «fuori»
A Milano, Hangar Bicocca, "Ambienti/Environments" di Lucio Fontana Finalmente ricostruiti gli «Ambienti» che lo scultore italo-argentino realizzò dal 1949 all’anno di morte 1968: ludici, sconcertanti, perfino mistici, ci fanno entrare immersivamente in un viaggio «fuori»
Fontana ha toccato la luna, titola nel febbraio del 1949 la rivista «Tempo». Scrive Raffaele Carrieri: «È la prima o l’ultima notte del nostro pianeta? In un cielo spettrale una forma tentacolare e incompiuta. Un dinosauro calcificato? La spina dorsale di un mammut? L’ambiente creato da Fontana in via Manzoni a Milano ci ha avvicinato alla luna assai più e meglio di qualsiasi cannocchiale». A venire così descritto è l’Ambiente spaziale a luce nera alla Galleria del Naviglio: il titolo della personale dell’artista e, insieme, dell’unica opera che vi era esposta. La quale infatti, come dice il titolo, coincideva con l’ambiente che la ospitava. L’anno prima, allestendo il cinema Arlecchino, Fontana aveva potuto sperimentare la lampada di Wood a luce ultravioletta (prima impiegata solo a scopi scientifici), che disconnette i colori dalle forme creando l’illusione di presenze tridimensionali nel vuoto. Così la scultura in cartapesta, sospesa nel buio fluorescente del Naviglio, sembra fluttuare nell’oscurità e proiettare essa stessa, come una presenza aliena, la luce violacea in cui è immerso chi la contempla.
La mostra al Guggenheim
Questa del ’49 è la prima tappa, in ordine cronologico, dello straordinario montaggio di attrazioni in cui sono stati trasformati gli immensi spazi dell’Hangar Bicocca, a Milano, dalla mostra Ambienti/Environments (fino al 25 febbraio, a cura di Marina Pugliese, Barbara Ferriani e Vicente Todolì, catalogo Mousse di prossima pubblicazione): che per la prima volta espone organicamente un’ampia selezione dei sedici Ambienti realizzati da Lucio Fontana fra appunto il ’49 e l’anno della morte, il ’68. Tanto negli scritti teorici che nelle interviste o nelle lettere, l’artista si mostra ben consapevole di come proprio questa fosse la parte della sua opera più ricca di futuro; ma sino a oggi è stata sempre trascurata. Anche per motivi pratici: tranne uno, infatti (al Musée d’Art Contemporain di Lione), gli Ambienti – che pongono ovvi problemi di immagazzinamento – non sono stati conservati, e già negli anni settanta Jan van der Marck sottolineava come l’assenza di questi lavori dalla retrospettiva di Fontana al Guggenheim contribuisse alla sua (tuttora) scarsa fortuna critica negli Stati Uniti (il contesto artistico, cioè, in cui – fra environment, happening e minimal – maggiormente gli Ambienti hanno fatto scuola).
Sicché si sono dovute incrociare testimonianze live (come quella di Nanda Vigo, che con Fontana realizzò le due Utopie esposte alla Triennale di Milano del ’64) e documenti eterocliti (carteggi, contratti, fotografie e descrizioni apparse sulla stampa dell’epoca), per poter ri-costruire le dimensioni esatte degli Ambienti, l’intensità e i colori delle luci, le textures di suoli e pareti, il loro grado di assorbimento della luce: tutto ciò che contribuisce, insomma, all’esperienza in cui consiste la loro visita. Sin dai primissimi appunti, infatti, Fontana subordinava l’importanza degli oggetti eventualmente contenuti negli Ambienti (come la forma vagamente biomorfa fluttuante al Naviglio nel ’49 o il «monolito», come lo chiama Pugliese, al centro dell’Esaltazione di una forma portata nel ’60 a Palazzo Grassi) all’insieme immersivo da essi rappresentato: l’«entrata», l’«uscita», il percorso nel suo insieme (che per esempio, nell’Utopia in rosso, costringe chi vi entra a sedersi sulle «onde» di moquette, per potervi «sciare» verso l’esterno; o, nello splendido Ambiente del Walker Center di Minneapolis, 1966, fa affondare i piedi in un pavimento di gomma morbida, lasciandovi orme come sulla superficie di un pianeta alieno) sono predisposti – ancorché non prescritti da un programma esplicito, come poi da Allan Kaprow e a seguire – come l’essenza stessa dell’opera.
Un’esperienza talora ludica (non a caso la Triennale del ’64, curata da Umberto Eco e Vittorio Gregotti, era dedicata al Tempo libero), altre volte sconcertante, se non addirittura mistica. Come alla Biennale del ’66 (non all’Hangar; ma un’atmosfera simile restituisce l’ultimo Ambiente riprodotto, quello predisposto per Documenta 4 a Kassel). Già due volte, negli anni cinquanta, Fontana aveva proposto degli Ambienti per le sue partecipazioni veneziane; invano. Stavolta a realizzare il suo progetto intervenne Carlo Scarpa, che lo modificò in misura sostanziale. Tanto in quell’occasione come nelle repliche di Stoccolma ’67 (la preferita da Fontana) e Kassel ’68, resta il percorso in un bianco abbacinante, al cui culmine troneggia (in copia unica a Kassel e qui a Milano, a gruppi di tre o di cinque nelle altre due versioni) un Concetto spaziale, uno dei «tagli» ai quali era (e resta tuttora) legata la fama dell’artista. Ma quel taglio non si produce più su una tela, bensì direttamente sulle pareti del corridoio, cioè nel vivo dell’ambiente (a Carla Lonzi dichiara infatti, Fontana, di aver voluto mostrare «la fine dell’oggetto»). Siamo noi che lo percorriamo, cioè, a vederci «tagliati».
Un’«ironia teologica» (Manganelli)
E che l’esperienza avesse un valore mistico, seppure in certa misura parodisticamente (un’«ironia teologica» definirà Manganelli, che se ne intendeva, l’arte di Fontana nel suo complesso), lo conferma la terminologia impiegata nella documentazione (i tre Concetti spaziali di Stoccolma, per esempio, vengono chiamati Trinità, e le strutture portanti «confessionali»); e tale carattere è accentuato dal fatto che all’Hangar, per preservare la purezza del tèmenos, ci venga chiesto di indossare delle soprascarpe: come se stessimo entrando in una moschea.
In generale quello che vuole Fontana, facendoci entrare dentro i suoi Ambienti, è farci fare un viaggio fuori. Esilarante, davvero a pieni polmoni, l’effetto – all’ingresso nell’iper -Ambiente rappresentato dall’Hangar nel suo complesso, calato in una densa semioscurità – della struttura realizzata nel ’51 per lo Scalone della Triennale di Milano: un «gran mar dell’essere» evocato da cento metri di neon fluorescente che disegnano un fantastico arabesco tridimensionale. Alle spalle di Fontana, certo, c’è la Ricostruzione futurista dell’universo vagheggiata nel ’15 da Balla e Depero, e più da vicino l’«ambiente» teorizzato da Boccioni (in archivio è conservata una foto del lavoro del ’49, con una nota di Fontana che lo definisce «una forma unica contenuta nello spazio», così rinviando al boccioniano Forme uniche nella continuità dello spazio); ma è possibile che, come gli aeropittori del futurismo tardo si erano ispirati alle fotografie aeree, anche lui abbia tenuto conto di prospettive «reali» (Marina Pugliese ricorda per esempio come già nel ’46 i cinegiornali Pathé avessero mostrato un filmato ripreso da una V2 durante un test in New Mexico): dice il manifesto Spaziali del ’48 che «oggi, noi, artisti spaziali, siamo evasi dalle nostre città, abbiamo spezzato il nostro involucro, la nostra corteccia fisica e ci siamo guardati dall’alto, fotografando la Terra dai razzi in volo».
Non si dovette aspettare dunque il 1966 – le prime foto prese dalle sonde sulla Luna, cioè – per quello che Alberto Boatto definirà Lo sguardo dal di fuori. La successione degli Ambienti di Fontana, anno dopo anno, si lascia seguire in parallelo all’avvicinamento astronautico a quella Luna evocata, come abbiamo visto, già nel ’49; e come un adempimento metafisico appare il candore ultraterreno raggiunto, in limine, fra il ’66 e il ’68. Quell’anno stesso, ad anticipare ormai di pochissimo il «grande passo per l’umanità» di Neil Armstrong all’uscita dall’Apollo 11, Stanley Kubrick raccoglierà il suo testimone: ma era stato lui, Fontana, a concepire per primo l’Odissea nello Spazio
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