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Fontaines D.C., come (non) dimenticare Dublino

Fontaines D.C., come (non) dimenticare DublinoFontaines D.C. – foto Wikipedia

Note sparse Ritorno per i cinque musicisti irlandesi con l'album "Romance" e un nuovo produttore, James Ford

Pubblicato 18 giorni faEdizione del 18 settembre 2024

Da bravi cultori di poesia con le mani sporche d’inchiostro, i cinque dublinesi conosceranno come le loro tasche lo Sweeney smarrito di Seamus Heaney, riscrittura del poema medievale Buile Suibhne in cui si narra la storia del re di Dal-Arie, vittima di una maledizione che lo tramuta in uccello costringendolo a vagare per le campagne irlandesi. Una metamorfosi esteriore che non muta i sentimenti di Sweeney, perfetta allegoria dell’artista il cui volo è chiamato ad aggirare i confini imposti dall’esterno. La maledizione dei Fontaines D.C., se così vogliamo chiamarla, è comune a tanta altra gente di Dublino da cui non ci si aspetta altro che rassicuranti cliché imbevuti di Guinness e cattolicesimo working class; resta da capire se la loro recentissima metamorfosi sia un effetto di questa dannazione o piuttosto uno stratagemma per sfuggirla. In ogni caso, quello che sembra un travestimento bello e buono, più che una nuova dramatis personae, presta il fianco al filone critico che ha già decretato l’ultimo Romance come il definitivo «Farewell to Erin», epilogo di una tetralogia dell’addio scandita da Dogrel (2019), A Hero’s Death (2020) e Skinty Fia (2022).

ANCHE PERCHÉ il loro stesso sound appare travestito, seppur in modo meno esuberante, per mano del nuovo produttore James Ford, reduce da un 2023 segnato dalle collaborazioni con Blur (The Ballad of Darren) e Depeche Mode (Memento Mori), permeate da albionico senso di fine imminente e dalla tensione tra vecchie e nuove identità. Lo stesso spirito che aleggia in Romance sotto la coltre di segni musicali accolti da tanti come svolta epocale ma in realtà già chiari nell’album precedente (britpop, elettronica, hip-hop, grunge, shoegaze e altre voci). Più che rivoluzione, l’immagine cristallizzata di una tappa evolutiva della band irlandese, giocata in primo luogo sull’ampio campo della performance; non solo quella corporea dalle nuove vesti sgargianti, ma soprattutto la sempre più sicura interpretazione vocale di Grian Chatten, il cui range espressivo trova i suoi antipodi in Starburster e Here’s The Thing. Ma sotto questo strato non certo superficiale continuano a riecheggiare temi ricorrenti, tanto musicali quanto letterari. E sono loro i primi a tradire un’eredità ancora salda, nella struggente Horseness Is The Watness, che cita l’Ulisse di Joyce e gli stessi Fontaines D.C. così come li abbiamo conosciuti finora.

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