Come Caroline, protagonista del romanzo Monteriano (1905) di Edward Morgan Forster, tutte le volte che vediamo a teatro Lucia di Lammermoor (1835) di Gaetano Donizetti siamo «allietati dall’esistenza della bellezza» e allo stesso tempo, come Emma, protagonista di Madame Bovary (1857) di Flaubert, siamo sgomentati dalla follia amorosa che quel «dramma tragico» mette in scena, perché quel tipo di follia porta sempre con sé l’ombra di un possibile contagio. L’allestimento dell’opera in scena al Teatro alla Scala di Milano fino al 5 maggio, una produzione nuova di zecca, colloca l’azione – ci informa il regista, scenografo e costumista Yannis Kokkos – nella «società della prima metà del XX secolo, più o meno intorno agli anni Venti», cercando di mettere «in rilievo il fatto che la pressione morale sia meno forte della violenza degli interessi economici» nella vicenda della povera Lucia, «accerchiata come se fosse una preda da predatori solo apparentemente civilizzati», il rapace fratello Enrico e l’orgoglioso innamorato Edgardo. Diversamente da Caroline, sarebbe meglio non cercare tracce del romanzo di Walter Scott nel libretto di Salvatore Cammarano che lo adatta per il teatro musicale; allo stesso modo sarebbe meglio non cercare nella messa in scena e nella regia descrittive e inermi di Kokkos l’attuazione compiuta delle sue intenzioni.

DI CERTO ALLIETA l’esistenza dello spettatore la bellezza che il direttore Riccardo Chailly cava fuori dalla partitura di Donizetti, sottraendola alle incrostazioni trivializzanti di una tradizione esecutiva quasi bicentenaria. La rinuncia non facile alla cadenza apocrifa della «scena della follia» di Lucia, ipostasi tra le più trasparenti della follia del melodramma romantico in generale, che parossisticamente tende all’iperbole ed è refrattario a quella che Alfred De Vigny chiamava l’«insopportabile tiepidezza dei mezzi-caratteri», è compensata dal cesello dei timbri, reso possibile dal ripristino della lunare glassarmonica al posto del flauto, inaugurato nel 2006 da Roberto Abbado, maestro di Chailly. Un cesello che invero attraversa l’esecuzione della partitura dal preludio all’aria finale di Edgardo, mostrandoci quanto di più raffinato si cela nella scrittura apparentemente piana di Donizetti e contagiandoci senza rimedio della follia amorosa di Lucia.

IL SOPRANO Lisette Oropesa scala la montagna impervia del ruolo della protagonista con grande classe scenica e con una leggerezza malinconica di fraseggio che oscurano le pur rare difficoltà di emissione del suono in acuto. Boris Pinkhasovich scolpisce un Enrico narcisista e prevaricatore grazie a un piglio sempre, imperativo. Pur restando il volume della sua voce spesso imprigionato nel vuoto impietoso del palco scaligero, Juan Diego Flórez ci regala un Edgardo alternatamente tenero e ardimentoso. Ieratico il Raimondo di Michele Pertusi; un po’ querulo l’Arturo di Leonardo Cortellazzi.