Gran parte dei numerosi studi sulla traduzione opera, spesso alquanto astrattamente, con le categorie della linguistica e delle scienze della comunicazione, restano così in ombra gli aspetti culturali, letterari, stilistici, e la storia stessa della traduzione. Non mancano certo felici eccezioni, come Dopo Babele di George Steiner, come La prova dell’estraneo di Antoine Berman, e accanto a queste opere possiamo collocare, perché affine nel privilegiare la dimensione teorico-storica, un bel libro di Gianfranco Folena, Volgarizzare e tradurre. Pubblicato presso Einaudi nel 1991, viene riproposto oggi, con l’aggiunta di altri scritti sul tema – come un notevole intervento su Giovanni Giudici traduttore dell’Onegin di Puškin, dove il poeta moderno gareggia con il metro (la tetrapodia giambica), con la dinamica narrativa, con le variazioni timbriche e melodiche dell’originale – da Franco Cesati Editore (pp. 195, € 20,00).
Il saggio suscitò subito, quando apparve, e poi nel corso degli anni, un intenso dibattito e larghi consensi, vicende che sono ottimamente riscostruite e commentate da Gianfelice Peron nella Postfazione. Ritroviamo qui il grande storico della lingua – ricordiamo solo L’italiano in Europa e Il linguaggio del caos. Studi sul plurilinguismo rinascimentale – che non esita ad aprire così il discorso: «Per noi non si dà teoria senza esperienza storica. Né si può parlare di “teoria della traduzione” se non come parte di teorie generali della letteratura, della linguistica o dell’ermeneutica filosofica». Un punto molto rilevante è la semantica dell’atto del tradurre e Folena rievoca dettagliatamente la ricca varietà dei termini in campo: «interpres», «turcimanno», «enromancier», «traslater», «volgarizzare», fino al vincente «tradurre».
È l’umanista Leonardo Bruni, autore del trattato De interpretatione (1420 ca.), dove sostiene l’importanza del ritmo, delle connotazioni sinonimiche, e invita a una vera e propria «imitatio» dello stile dell’autore tradotto, che privilegia e impone «traducere». «Aveva bisogno – così Folena, in una delle sue ben calibrate interpretazioni – di un vocabolo nuovo, non consunto come transferre, dove l’operazione di trapianto d’una in altra lingua si manifestasse con maggiore energia e plasticità: e traduco non solo era più dinamico di transfero, ma rispetto al suo più vulgato predecessore conteneva, oltre al tratto semantico dell’ “attraversamento” e del “movimento”, anche il tratto della “individualità” o della causatività soggettiva (si pensi a duco/dux rispetto a fero), sottolineando insieme l’originalità, l’impegno personale e la “proprietà letteraria” di quest’operazione sempre meno anonima».
Il libro conquista il lettore anche per la qualità saggistica della scrittura, perché Folena, quando presenta alcuni momenti decisivi, nella storia della traduzione, sa anche perfettamente «rievocarli». Gli inizi della poesia italiana sono segnati, in modo molto significativo, dai «poeti-traduttori» della Scuola siciliana. Nella canzone Madonna dir vo voglio il più grande di loro, Giacomo da Lentini, traduce una canzone di Folchetto di Marsiglia, aderendo fedelmente alla lettera ma trasformando i decasillabi dell’originale in agili settenari: «Ancor più che la ricerca di brevitas e di chiarezza, per esempio con l’eliminazione dei forti iperbati dell’originale, colpisce in questa “copia” così significativa la diversa articolazione dei membri e la “quadratura” ritmico-sintattica. Il solenne adagio dell’ampia stanza indivisa, asimmetrica e isoritmica di Folchetto si risolve in un movimento ritmico “andante”».
Un altro momento di grande rilievo è l’opera di Jean de Meun, traduttore del De re militari di Vegezio, della Historia calamitatum di Abelardo, del De consolatione philosophiae di Boezio, instancabile e audace volgarizzatore – di Cicerone, Virgilio, Ovidio, dei poeti-filosofi della scuola di Chartres – nel suo capolavoro, il Roman de la rose. Nella sua ultima e più matura opera di traduttore, i Livres de Confort de Philosophie, dedicata a Filippo il Bello, Jean de Meun espone nella prefazione i criteri che hanno informato il suo lavoro. Folena ne coglie la grande originalità e ne riporta i passi principali: «Prego tutti coloro che vedono questo libro, se pensano che in alcuni luoghi mi sia troppo allontanato dalle parole dell’autore o che abbia messo talvolta più parole di quelle che ha messo l’autore, e talvolta meno, che mi perdonino. Perché, se io avessi reso parola per parola il latino con il francese, il libro sarebbe stato troppo oscuro per gli illetterati. (Car se je eusse espons mot a mot le latin par le françois, li livres en fust trop oscurs aus gens lais)». Si manifesta qui un vivo senso dell’«utilità» del volgare e della necessità di guadagnare un nuovo pubblico: «Sono queste forse, prima di Dante – commenta Folena – le pagine più notevoli che un letterato volgare abbia consacrato al tradurre, sotto il segno così francese della clarté».
In questa avventurosa storia della traduzione, così ricca di scosse e di svolte, uno degli indiscussi protagonisti è Leonardo Bruni. Il grande umanista ha una sensibilità linguistica e filologica molto particolare. Folena analizza il suo volgarizzamento dell’orazione ciceroniana pro Marcello e rileva un deciso stacco con la tradizione: Bruni mette in rilievo, ma senza effetti pedanteschi, l’architettura del periodo, non ricerca parallelismi ma preferisce operare con degli stacchi netti, marca i nessi logici con un’enfasi del tutto nuova. L’analisi continua poi contrapponendo, parola per parola, l’inizio dell’orazione nel volgarizzamento di Brunetto Latini e in quello di Bruni. È una mossa critica che risulta più illuminante di tanti discorsi, perché scende nella materialità dei testi. Vale la pena di seguirla. Cicerone: «Diuturni silentii, patres conscripti, quo eram his temporibus usus, non timore aliquo, sed partim dolore partim verecundia, finem hodiernus dies attulit: idemque initium quae vellem quaeque sentirem meo pristino more dicendi». Brunetto Latini: «Questo presente giorno, signori senatori, ha posto fine al mio lontano tacere, il quale io ho tenuto a questi tempi non per alcuna paura, ma parte per dolore, parte per vergogna; e hammi dato cominciamento di dire ciò ch’io voglio e ciò ch’io sento secondo il mio usato costume». Leonardo Bruni: «Al lungo silenzio, patri conscripti, el quale io a questi tempi ho usato, non per alcuna paura, ma parte per dolore, parte per vergogna, il giorno presente ha posto fine. E questo medesimo giorno presente m’ha arrecato il principio di dire quelle cose che io voglio, e che io ho nell’animo, secondo la mia prima consuetudine».
Inevitabile la conclusione, prima cauta, poi netta e senza riserve. Perché Bruni, con il suo colore «romano», ci dà una traduzione «straniante» – questo, ci dice tutto il libro, è il livello più alto del tradurre – lascia che la lingua d’arrivo, l’italiano, sia scossa e sommossa da una lingua straniera: «Si potrà magari preferire, nella sua chiarezza, l’andamento diretto e rettilineo di Brunetto a quello teso e circolare dell’Aretino, il colore “romanzo” del primo a quello “romano” del secondo, ma si dovrà pur concludere che in questo diverso contatto con i classici, che è tutt’altro che un mero esercizio letterario e stilistico, ma misura e arricchimento delle capacità culturali del volgare, la prosa italiana ha conquistato la sua terza dimensione».