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Foglie d’erba e visioni psichedeliche

Foglie d’erba e visioni psichedeliche

Stefano Caratene Una analisi critica sull'opera grafica e pittorica di Caratene

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 5 ottobre 2019

Stefano Caratene è uno degli unsung heroes di quell’esaltante stagione, tra gli anni Sessanta e Settanta, in cui era di rigore, per le menti più avventurose, affrontare – a piedi scalzi e con i capelli scarmigliati- la deriva psicogeografica. Era il momento perfetto: tutto il mondo appariva fresco di creazione e bastava una scatola di pastelli per misurarlo e un album da disegno per portarselo appresso, arrotolato nel sacco a pelo. La galassia di quaderni macchiati e di sketchbook spiegazzati, fitti come una foresta pluviale di annotazioni e disegni, che ruotava intorno quelle esplorazioni spericolate, è uno degli aspetti meno noti di un periodo che, per altri versi, è stato ossessivamente scandagliato.
Sto parlando di minuscoli tesori artistici – in gran parte svaniti con i loro compilatori- che hanno deliziato gli adepti di quella confraternita nomade, troppo folle e non etichettabile per interessare galleristi e critici, troppo fragile e straripante di vita vera per venire cooptata dal mercato dell’intrattenimento. Tra le carte che allora mi capitarono tra le mani e che oggi ricordo con un brivido, ci sono quelli del viaggiatore «piccino» ticinese Franco Beltrametti, del poeta romano Aldo Piromalli o di «artisti per caso» come il milanese Luciano Pradella e il genovese Valerio Diotto, tutti nomi operanti in quegli anni a quota periscopica nel circuito underground.
E poi naturalmente c’è il romano Stefano Caratene, un assiduo frequentatore di terrain vague brulicanti di forme di vita paradossali, situati in un ipotetico incrocio tra Shangrillà, Santa Maria in Trastevere e Hiroshima. Territori parzialmente mappati dai pennelli radioattivi e gommosi di Ensor, Dalì o Savino- tutte esperienze ben assimilate nella sua produzione artistica. Caratene prende avidamente nota delle sue visioni, con una sensibilità da teppista incastonatore di pietre, abituato a convertire i tavolini dei bar, i gradini delle piazze e le terrazze di qualche alberghetto decrepito incrociato lungo la hippie trail, in laboratori alchemici.
In un disegno a penna Bic, la sua tecnica preferita, perfetta per lavorare veloce e senza ripensamenti, si ritrae come un pacioso oste di una trattoria romana surriscaldata, dove le pentole sui fornelli sono una versione ruspante di athanor, da cui schizzano irruente entità demoniache domestiche e le pietanze, testarde, sfidano la legge suprema della natura morta, non rinunciando a passeggiare, volare, trasmigrare. Sui suoi taccuini (alcuni dei quali sono diventati deliziose autoproduzioni editoriali, come Karma d’Oppio del 1973, redatto durante un viaggio in Afghanistan) tutte le forme di vita sono impegnate in estenuanti accoppiamenti che nemmeno i viaggi astrali più arditi riescono a rallentare.
Nel complesso i suoi disegni hanno un certo sentore di spiritismo, paiono realizzati sotto dettatura medianica. Sprofondano nella psicosi ipnagogica per poi trovare un’inaspettata via d’uscita in una sfrenata comicità dionisiaca da marginalia medievale. Persino un pensionato in canottiera può diventare interprete di un grandioso dramma cosmico, intrattenere discorsi con stregoni e grilli. Nelle opere di questo artista-poeta assai schivo, i pensieri vengono resi senza incipriature e romanticismi, attraverso le cifre del grottesco, dell’esoterico, del mirabolante. Il roveto ardente di Mosé è un girarrosto per leoni, una tappa di un tour di lumaconi marini dai gusci che sono in realtà mondi alieni, in un labirinto di ossa calcinate. E meduse e guerre e trappole di aracnidi che diventano cuori pulsanti di passione.
Come un savant fou va troppo in là, si fa prendere la mano dall’esperimento, con i suoi inchiostri tramuta i giardini in discariche e le discariche in giardini. Scivolando a folle velocità sulla punta della biro, stregata come la verga del Bagatto, Stefano Caratene si fa risucchiare nel vortice di un continuo saliscendi sui piani della coscienza, ipnotizzato dal ruotare vorticoso della ruota del karma.
Penso che si sarebbe trovato a suo agio, inserito dentro una thangka tibetana a osservare la pelle morbida dei personaggi in scena farsi carne frollata, i principi diventare maiali, il piacere diventare disgusto, i liquidi e la materia organica coagularsi- giusto per un istante- prima di riassumere nuove piacevoli forme, per nascere, morire e rinascere ancora. Tutto compreso nello spazio di un quadernetto.

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