In occasione dell’uscita della sua traduzione di Rollerball di William Harrison (Occam, 2024), abbiamo incontrato lo scrittore (e tante altre cose) Flavio Santi per una conversazione sulla fantascienza come genere a partire dalla letteratura ma con riferimento a adattamenti per il cinema, soprattutto in ambito anglofono.

Leggendo la tua traduzione di «Rollerball», il racconto di William Harrison da cui Norman Jewison ha tratto l’omonimo film del 1975 con James Caan, mi viene da chiederti, che cos’è oggi la fantascienza (distopica)?
La tecnologia è diventata talmente pervasiva tanto che a leggere Harrison, come a leggere tutta la buona fantascienza, l’impressione che si ha è quella di leggere letteratura contemporanea, specie se poi a scrivere è qualcuno che, come dici giustamente tu, ha una prosa nervosa e scattante che ricorda quel campione di realismo che è stato Hemingway.

Direi che è il problema della «freccia del tempo», per usare l’espressione di un romanzo di Martin Amis che per me è di fantascienza (come di fantascienza è lo strepitoso racconto di Francis Scott Fitzgerald, Lo strano caso di Benjamin Button). Nella nostra percezione il tempo è lineare, dunque qualsiasi romanzo di fantascienza che si basa su ambientazioni nel «futuro», anche lontanissimo, prima o poi verrà riacciuffato e superato (a meno di non tifare per l’estinzione del genere umano). Penso al caso di Cronache marziane di Ray Bradbury, ambientato negli anni 1999, 2000, 2001 eccetera: fa una certa impressione! Infatti le ultime edizioni sono state aggiornate e spostate di una trentina d’anni in avanti: 2030, 2031… Ma è un problema solo rinviato. Dunque la fantascienza che si basa sull’idea «classica» di tempo, quella – diciamo – newtoniana, è destinata a invecchiare tragicamente, a meno che non siano dei capolavori che puntino anche e soprattutto su altro, come appunto Rollerball, o Solaris che giustamente Oreste del Buono considerava un vertice della letteratura polacca e basta, senza distinzione di generi. Non sulla tecnologia bisognerebbe puntare, che di per sé è guardarobato, trouvaille, perfino archeologia a un certo punto, ma su campi come, per esempio, la fisica quantistica, che ci dice che il tempo non è lineare, che esistono universi paralleli, ecc. In questo la «distopia» è un mezzo molto potente, ma appunto se usata in chiave «quantistica». Oppure – altra possibilità fruttuosa – come fa Rollerball, in chiave sociologica ed esistenziale.

E la fantascienza in chiave horror allora, come la vedi? Penso agli anni Ottanta e, per quanto riguarda il cinema (americano), a John Carpenter. Per rimanere in tema di adattamenti letterari, mi viene in mente quello che forse è il suo capolavoro, il filosofico «La cosa» (1982), remake di un classico cinematografico sì, ma che, a sua volta, si basa su un romanzo del 1938 di John W. Campbell, «Who Goes There»?
L’horror, l’orrore, è un’altra dimensione universale, non legata al contingente della tecnologia, dunque estremamente fruttuosa. Unito al wonder, all’amazing, secondo le parole-chiave della cosiddetta Golden Age della fantascienza (nozioni che però vengono da Edgar Allan Poe) a cui appartiene appunto il romanzo di Campbell, che in italiano suonerebbe «Chi va là». È un romanzo molto articolato, di un grande autore, laureato in fisica, pochissimo tradotto in Italia. Peccato, da noi si sono creati quasi due fronti in merito: da una parte Asimov e Bradbury che rappresenterebbero la grande letteratura (senza altre qualifiche), dall’altra gli autori di Urania, che invece sarebbero la serie B, roba di consumo e basta. Invece proprio qui ci sono autentiche gemme di letteratura (senza altre qualifiche, punto). Campbell è uno di questi. Rispetto al film di Carpenter, il romanzo insiste molto anche sugli aspetti psicologici, di paranoia collettiva, dovuti al fatto che The Thing è introvabile, potenzialmente nascosta in ognuno dei componenti della missione antartica.

Nel Signore del male di Carpenter c’è invece la grande intuizione di un anti-Dio come antimateria. Comunque Carpenter ha spesso avuto un rapporto intenso con la letteratura: Christine è tratto da Stephen King, Essi vivono da Ray Nelson, Villaggio dei dannati da John Wyndham – per fare i nomi di altri due grandi autori da noi di fatto sconosciuti.

Qual è invece la tua opinione della fantascienza letteraria e di quella cinematografica (occidentale) a partire dagli anni Novanta a oggi? Pensi che siano emerse nuove caratteristiche nel racconto fantascientifico in ambo i campi? Se sì, quali?
Difficile individuare linee che non siano semplici segmenti, sentieri interrotti. Assistiamo a drastiche semplificazioni, penso al caso del Solaris di Soderbergh con George Clooney, molto più a suo agio con altre capsule. L’oceano psichico, generatore di «presenze» – la grande invenzione del romanzo omonimo del polacco Stanislaw Lem – scompare completamente: tutto è ridotto a una banale storia d’amore. Ci sono poi i film fracassoni, buoni per un weekend fuori porta. Il remake stesso di Rollerball del 2002 è un action movie sconclusionato, che nulla a che vedere con il racconto di Harrison, e nemmeno con il film di Jewison. Comunque, dove alle spalle c’è una buona narrazione i risultati si vedono, c’è tensione, ci sono idee: Starship Troopers (1997) di Paul Verhoeven è un buon adattamento dell’omonimo romanzo di Robert A. Heinlein (altro grande autore da noi poco frequentato), denuncia fascio-fantascientifica. Arrival (2016) di Villeneuve riprende Storie della tua vita di Ted Chiang, con un approccio fanta-filologico-linguistico piuttosto originale. Il problema resta sempre quello di una buona scrittura. Poi, naturalmente, ci sono le eccezioni: la saga di Alien rimane un punto cardinale, ma è fantascienza autoriale, c’è la mano di Ridley Scott. Quanto alla narrativa in senso stretto, penso a un libro passato un po’ sotto silenzio in Italia, per la mole, che è un audace tentativo di far entrare James Joyce nella fantascienza: Donne e uomini di Joseph McElroy. E poi mi chiedo sempre dove sono gli italiani. Si staglia il compianto Valerio Evangelisti, ma qualche altro nome si sta facendo avanti, penso a Massimo Gardella. Insomma, virando Ugo Foscolo in salsa steampunk: «Italiani, vi esorto alle storie… di fantascienza».

Per finire ti chiedo: tra letteratura e cinema/serie TV, cosa può darci oggi la fantascienza che altri generi non sono in grado di fornirci nello stesso modo?
Dopo lo sfondamento della «quarta parete» a teatro, la fantascienza sfonda la parete del reale. A me interessa la sua carica filosofico-linguistico-esistenziale, la sua capacità di estendere all’infinito i confini (secondo quello che dice Wittgenstein sui limiti del nostro mondo legati al nostro linguaggio), unendo gli estremi, la techne più spudorata con la psyche più profonda. Come fa la poesia.