Flaubert, quel mistico che non crede a niente
Il più grande deposito di meraviglie decadenti fu allestito da Gustave Flaubert nel suo La tentazione di Sant’Antonio, sublime bric-a-brac teologico-estetico, che ci giunge ora in una nuova efficace traduzione e cura di Bruno Nacci (Carbonio, pp. 176, euro 16,50).
L’opera, di cui negli anni recenti aveva circolato soprattutto la versione di Agostino Richelmy (Einaudi), ebbe una gestazione assai complessa, uscì nel 1874, dopo qualche pubblicazione di estratti in rivista. Al centro della scrittura è una suggestione che parte dal visionario Caino di George Gordon Byron, per narrare del santo anacoreta e delle sue lussureggianti visioni erotiche nel deserto.
IN UNA LETTERA l’autore dice che la prima idea del lavoro gli era nata a Genova, a Palazzo Balbi, in contemplazione del quadro attribuito tradizionalmente a Peter Bruegel il giovane, da poco ritornato in mostra a Palazzo Spinola. In quest’opera un intero plotone di demoni in schiera si muove per aggredire il santo, che resta sullo sfondo.
Il libro, aggressivamente moderno, si struttura per tableaux di apparizioni, è un’opera aperta, circolare, ellittica, che narra di eresiarchi visionari del IV e V secolo, come di mirabili cortigiane e di splendenti gemme. Erudizione selvaggia e esotismo vanno di pari passo in questo libro per cui Flaubert accumulava più sapere extravagante dei suoi immortali Bouvard & Pecuchet. In una missiva a un amico citata da Nacci afferma, «sto leggendo una cosa che non ha niente di umano, la Storia del manicheismo, due volumi in quarto di cinquecento pagine ciascuno. Nelle intermittenze della mia idiozia penso di essere folle, ma alla fine bisogna assecondare le proprie inclinazioni». D’altro canto tutta la sua opera, legata a un ossessivo labor limae, è connessa a una definizione che egli dà di se stesso: «sono un mistico che non crede a niente». La passione per la teoresi più accesa, nell’infiammata Tebaide dell’immaginazione è nella Tentazione portata all’estremo.
PER QUESTO BAUDELAIRE indicava questo testo come la «stanza segreta» dell’immaginazione flaubertiana, in cui andavano in scena i più squisiti delitti dell’immaginazione. La prosa qui si fa poesia e catalogo allo stesso tempo, laddove l’autore si scatena nell’elencare, in terza persona, i continui crolli del santo di fronte al male, che «cade come corpo morto cade», dantescamente. Mirabile e splendente liturgia dell’immaginazione la Tentazione ha ispirato infiniti artisti, da Joris-Karl Huysmans, a Pierre Klossowski e Carmelo Bene, fornendo il prontuario di ogni possibile decadenza a venire, nello splendore della prosa che si fa poesia, e che torna poi saggio mettendo in ordine tutte le visioni del mondo antico. Come avrebbe teorizzato Gilles Deleuze parlando del Riccardo III di Carmelo Bene in Sovrapposizioni, qui si chiariva, in modo clamoroso, che l’opera nel tempo moderno poteva essere allo stesso tempo poesia e commento, invenzione e esegesi, filologia e lirica.
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