Emblema pluridecennale dell’engagement, già compagno di strada dei comunisti, inconsapevole propiziatore della rivolta di Maggio, poi finanziatore e diffusore sui boulevard – già settantenne e semicieco – del foglio maoista «La Cause du Peuple», in effetti Jean-Paul Sartre aveva in mente da decenni un libro sul suo perfetto antipode, Gustave Flaubert, lo scrittore per antonomasia formalista e impolitico il cui sguardo si prolunga nella esattezza di uno stile così equilibrato e paradossalmente anonimo da sembrare infine un dato di natura. Concepito nel 1943 sotto l’Occupazione nazista, la prima mano al libro su Flaubert principia soltanto nel ’54 e si conclude due anni dopo quando Sartre rompe con i comunisti, mentre la definitiva va dal ’60 al ’73, per complessive cinque stesure e tremila pagine, ma viene interrotta dalla sopravvenuta cecità dell’autore: ne escono in Francia fra il 1971 e il 1972 tre tomi ponderosi (un quarto rimarrà allo stato di abbozzo), in Italia invece solamente i primi due dal Saggiatore nel ’77 per la limpida, benemerita, versione di Corrado Pavolini: è la stessa, L’idiota della famiglia Gustave Flaubert dal 1821 al 1857 (Il Saggiatore «La Cultura», pp. 1.158, € 65,00), che ora torna con una appassionata prefazione di Massimo Recalcati, il quale figurava una decina di anni fa, con Rocco Ronchi e altri interpreti, in un convegno propiziatorio i cui Atti si intitolano Soggettivazione e destino. Saggi intorno al Flaubert di Sartre (Bruno Mondadori 2010).
È impossibile definire L’idiota della famiglia con i criteri convenzionali. Si tratta di uno dei grandi libri del secolo scorso, la cui scrittura saggistica viene mantenuta per migliaia di pagine allo stato più incandescente, dove si inseguono, reagiscono e confliggono tra loro le masse erratiche di un pensiero in cui coabitano per darsi di continuo il cambio la analisi filosofica, la critica letteraria e la storiografia, la cronologia biografica e i rilievi psicoanalitici. Flaubert è dunque un test itinerante e insieme la retroversa proiezione autobiografica della scrittura di Sartre e della sua stessa genetica. Per ulteriore paradosso, a Sartre non sembra affatto interessare l’arte di chi ha scritto Madame Bovary (e infatti l’enorme palinsesto nel sottotitolo proclama di interrompersi proprio al 1857, l’anno di pubblicazione di quel capolavoro) quanto di sondare una traccia biografica il cui deposito rimane più che altro nell’ingente epistolario flaubertiano e nelle testimonianze dei suoi contemporanei. È detto nella prefazione: «Ora bisogna cominciare. Come? Da cosa? Importa poco: in un morto si entra come in una porta spalancata. L’essenziale è di partire da un problema».
Il problema è l’etimologica idiozia (cioè deprivazione, inibizione, reclusione) del bambino Gustave, nato nel 1821 a Rouen in una famiglia borghese dove il padre, chirurgo di fama, devolve tutta la sua ambizione al primogenito Achille, che ne replica il nome, mentre sua madre prodiga il suo affetto in esclusiva alla figlia terzogenita. L’intermedio Gustave, un bambino goffo, impacciato, valetudinario, funge da epicentro di un microcosmo concentrazionario dove nessuna umiliazione gli viene risparmiata: parla poco e male, mostra difficoltà nell’imparare a leggere e scrivere, è insomma totalmente assoggettato al proprio ambiente e ne è piegato, ammutolito. Egli non sembra poter disporre né di una propria parola né di un destino, per lui sembra annunciarsi soltanto la fatalità di un silenzio prolungato e perennemente addolorato.
Qui Sartre coglie tuttavia il punto di innesco di una imprevista vocazione che via via favorisce il mutamento radicale per cui Gustave non solo è capace di riappropriarsi della parola ma di tradurla ipso facto in una scrittura tanto limpida, netta, tanto sua da simulare la naturalezza e, perciò, da mascherare il decorso della avvenuta soggettivazione nell’anonimato della pura, irenica, oggettività espressiva: «Non capovolge – scrive Recalcati – la passività vegetativa dell’origine in attività, ma prova ad estrarre una attività dalla sua stessa passività. Si può essere uomini solo se si è scrittori». Qui viene in luce il fatto che ne L’idiota della famiglia c’è in essenza Flaubert ma c’è prima ancora e sottotraccia Jean-Paul Sartre, una volta libero dai massicci stereotipi dell’autore impegnato e sempre en situation, persino fatalmente condannato alla sovraesposizione in pubblico. Molti allora si sorpresero del fatto che Sartre, mentre il mondo andava a fuoco, fosse concentrato sugli avvenimenti di un collegio fra Rouen e Croisset dove, regnante Luigi Filippo, un bambino di nome Gustave manifestava una completa estraneità alla vita viva. A quella altezza, va ricordato, Sartre non frequenta più il Quartiere Latino ma vive a Montparnasse in boulevard Raspail dove, sessantenne, conduce un’esistenza talmente ritirata da contraddirne del tutto l’immagine pubblica: non esce più di casa se non alle 15 per il pranzo alla Coupole con Simone de Beauvoir e qualche amico, a parte Flaubert si limita alla lettura dei giornali e quando in pieno ’68 Daniel Cohn-Bendit va a trovarlo ne riceve una sensazione spiazzante e, anzi, una delusione che non è rimediata nemmeno dal tardo appoggio ai gruppuscoli maoisti, motivabile per solidarietà e non per intima adesione – come è chiaro dai colloqui con Philippe Gavi e Pierre Victor in Ribellarsi è giusto! (Einaudi 1975).
Ma intanto nel ’61 per il suo impegno a favore della indipendenza algerina e la firma in calce al «Manifesto dei 121», l’O.A.S. (l’esercito segreto dei neofascisti francesi e suprematisti bianchi) gli ha fatto saltare con una bomba il vecchio appartamento. In seguito, nel ’64, ha rifiutato il Premio Nobel, quando la sua opera filosofica e letteraria sembra a molti conclusa. Che le cose non stiano affatto così, nell’imminenza del grande testamento che è L’idiota della famiglia, lo dicono almeno due testi di suprema qualità che in retrospettiva sembrano infatti due predelle. L’uno è dichiaratamente autobiografico, Le parole (1964), il libro di una infanzia sottilmente infelice, da orfano, dove il piccolo Poulou (questo il suo nomignolo domestico) si riscatta dal calore ambiguo che pareva soffocarlo, si redime dalla sua goffaggine che diremmo ora cripto-flaubertiana, per il tramite dei libri e della scrittura. (Ripeterà peraltro nell’Idiota la sua massima di sempre, secondo cui nei graffiti di Lascaux c’è tutta la pittura, in una sola pagina tutta la letteratura e in ogni singolo uomo, finalmente, tutto l’uomo). E poi, risalente al ’61, ecco un’altra delle partiture saggistiche degne di comparire vicino a quelle dedicate ai suoi grandi compagni di via (Paul Nizan, Maurice Merleau-Ponty, Albert Camus), la prefazione a I dannati della terra di Frantz Fanon, lo psichiatra martinichese divenuto il più lucido eversore del colonialismo, l’uomo di studio costretto a trasformarsi nell’uomo della roncola, in cui si legge: «Noi non diventiamo quello che siamo se non con la negazione intima e radicale di quel che hanno fatto di noi». Ovvio che mirava a Fanon ma anche a sé stesso e nelle Parole lo avrebbe ribadito alla maniera di un imperativo categorico: «Non chiederti cosa hanno fatto di te, ma chiedi a te stesso cosa hai fatto di quello che hanno fatto di te». Nell’atto di scriverlo, Jean-Paul Sartre non poteva non pensare anzitutto a Gustave Flaubert.