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Flannery O’Connor, nel grottesco un viatico per la redenzione

Flannery O’Connor, nel grottesco un viatico per la redenzione

Scrittrici americane La nuova traduzione dei primi racconti di Flannery O’ Connor restituisce l’equilibrio tra rabbia e sarcasmo e la radicalità del suo realismo sudista: «Un brav’uomo è difficile da trovare», da minimum fax

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 6 giugno 2021

Come a difendersi dalla frequente iscrizione, da parte della critica sua contemporanea, alle fila degli scrittori connotati dall’utilizzo del grottesco, Flannery O’Connor dedicò a questa categoria letteraria uno dei suoi saggi più famosi, Some Aspects of the Grotesque in Southern Fiction: «Tutti i romanzieri sono essenzialmente indagatori e descrittori del reale – scriveva – ma il realismo di ciascun romanziere dipende dalla sua comprensione dei limiti ultimi della realtà».

L’uso frequente, e addirittura spregiudicato, che O’Connor fa di personaggi, situazioni e risoluzioni indubbiamente grotteschi (spesso attraverso l’irruzione di una violenza perturbante) veniva da lei giustificato in virtù di una visione del mondo secondo la quale la vita e i suoi accidenti rappresenterebbero un mistero in ultima analisi insondabile.

Una prospettiva ambigua
Il suo orientamento teologico la portava a pensare che l’aspirazione sempre frustrata dell’essere umano a una pienezza irraggiungibile si risolvesse nel grottesco: una sorta di malformazione reale o figurata che incarnerebbe, senza riuscire a trascenderla, la propria consapevolezza di essere parte di un mondo condannato dal peccato. «Per poter riconoscere un freak è necessario avere una qualche concezione dell’integrità umana», scriveva O’Connor, «e il freak acquista profondità letteraria solo quando viene inteso come simbolo del nostro straniamento sostanziale». In altri termini, nell’utilizzare la letteratura come allegoria della propria condizione esistenziale, lo scrittore dedito al «realismo cristiano» (parole dell’autrice) dà voce a una concezione ontologica travagliata, solo parzialmente lenita (o forse, al contrario, acuita) dalla lettura dei testi sacri; un rimedio al quale O’Connor, cattolica devota e afflitta da una grave infermità cronica che l’avrebbe portata alla morte in giovane età, ricorreva di frequente nel tentativo di trovare conforto dalle angosce che la tormentavano e delle quali si trova un’accorata testimonianza nel suo Diario di preghiera.

In Levitico 21: 16-23, si legge di come ai «deformi» (aggettivo che funziona anche da metonimia per l’infermità dello spirito) sia severamente vietato partecipare ai riti sacri in onore di Dio, ma anche di come costoro non siano per questo esclusi dalla possibilità della comunione e quindi della redenzione. Una prospettiva fondamentalmente ambigua: se da un lato contribuisce a qualificare il grottesco come stigma sociale, favorendone la coincidenza con la depravazione dell’individuo, dall’altro lo apre al mistero della salvezza e della grazia divina. Accompagnata in dosi uguali da comicità e violenza, questa stessa ambiguità si riverbera in tutta l’opera di Flannery O’Connor, raggiungendo probabilmente la sua incisività maggiore nei racconti, forma letteraria della quale l’autrice americana è una delle massime rappresentanti nella letteratura del Ventesimo secolo.
Lo dimostra la sua prima, e per certi versi insuperata, raccolta, Un brav’uomo è difficile da trovare, dieci storie perfette nella loro crudezza nonché perfidamente sarcastiche, ora ritradotte da Gaja Cenciarelli (minimum fax, pp. 283, € 17,00).

Originariamente pubblicati nel 1955 a seguito del primo romanzo di O’Connor, La saggezza nel sangue, questi racconti mantengono una forza espressiva invidiabile, non avendo minimamente perso la capacità di intrattenere e al contempo spiazzare il lettore (qualità già notata, o meglio, lamentata da alcuni critici dell’epoca). Attraverso rovesciamenti non di rado inattesi e disturbanti, la scrittrice americana ci costringe a risate la cui inquietudine è provocata dal contrasto tra la violenza dei fatti narrati e una voce autoriale ironica e distaccata.

Violenza e comicità le derivano, ancora una volta, dalla dimensione religiosa: considerava entrambe, infatti, come il prodotto inevitabile delle discrepanze che la sua scrittura si proponeva di sanare nel tentativo di suggerire la gloria impenetrabile della grazia divina.

Il Sud di Flannery O’Connor mostra elementi contrastanti in un equilibrio precario, sempre sul punto di infrangersi. La componente gotica – una delle più celebri e studiate della sua opera – si incarna in personaggi ambigui, irrazionali, dalle psicologie distorte; carnefici capaci di perverse efferatezze e vittime travolte da un destino incomprensibilmente crudele. Da cattolica cresciuta in una delle regioni in cui la confessione protestante-evangelica è più diffusa, O’Connor doveva avvertire come particolarmente manifesta la decadenza dell’uomo e la sua incapacità di avvicinarsi alla luce divina attraverso l’osservazione delle vite dei suoi corregionali. Allo stesso tempo, da conoscitrice del pensiero tomista, la scrittrice americana era convinta della presenza di Dio in ogni aspetto della realtà, e quindi della possibilità di un’improvvisa, accecante rivelazione capace di portare cambiamenti drastici, addirittura brutali, nelle vite degli individui, dunque dei suoi protagonisti.

«Ho scoperto che, stranamente, la violenza è in grado di riportare i miei personaggi alla realtà e prepararli ad accettare il loro momento di grazia. Sono così cocciuti che niente sarebbe altrettanto efficace». Nelle intenzioni di O’Connor l’azione truculenta della grazia divina vorrebbe favorire nei personaggi l’avvicinamento a una concezione più profonda del mondo e della fede, ma è impossibile non cogliere, ancora una volta, una duplicità difficile a risolversi. Se la grazia dispensata con sardonica generosità dalla scrittrice è specchio di un sincero intento teologico, l’opera nel suo complesso è un modello notevole del gusto addirittura morboso, tipico di certa letteratura del Sud.

Al di là della sua mistica tetraggine, O’ Connor è anche una grande osservatrice del microcosmo regionale nel quale ha passato quasi tutta la vita. Racconti come «Il fiume», «Brava gente di campagna» o «Il profugo» contengono la ricostruzione fedelissima di un meridione tanto bizzarro quanto materico, riprodotto in ogni gesto, ogni dettaglio e ogni accento.

Affacciati sul surreale
Da questo punto di vista, la nuova traduzione di Cenciarelli (che si era già misurata con successo con il libro forse più cupo di O’Connor, Il cielo è dei violenti), porta efficacemente nella nostra lingua sia il delicato equilibrio di rabbia e sarcasmo della sua voce, sia la sua grande abilità nel radicare con forza la sua prosa in una dimensione regionale nitidamente realistica, evocata anche attraverso un utilizzo sapiente dei diversi registri.
Il realismo quasi documentario di O’ Connor è sempre pronto ad aprirsi su un abisso buio e surreale, come nel racconto che dà il nome alla raccolta, esempio mirabile di complessità formale e filosofica, nonché della abilità di allestire allegorie intricate che, nel suggerire la possibilità della salvezza, sembrano evocare anche altrettanti esempi di dannazione.

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