Fiorenzo Carpi, le note visionarie di Pinocchio
Intervista/Il maestro secondo la figlia Martina Fu in grado di «mescolare alto e basso» attingendo dalla tradizione e allo stesso tempo puntando sempre a nuove intuizioni melodiche. Il suo guizzo geniale si ritrova nelle collaborazioni con Comencini e in «Zazie nel metrò»
Intervista/Il maestro secondo la figlia Martina Fu in grado di «mescolare alto e basso» attingendo dalla tradizione e allo stesso tempo puntando sempre a nuove intuizioni melodiche. Il suo guizzo geniale si ritrova nelle collaborazioni con Comencini e in «Zazie nel metrò»
Fiorenzo Carpi è stato un compositore di una famiglia dal sangue artistico e di una Italia che aveva ancora un senso di rivolta culturale e non solo. È stato il compositore del teatro contemporaneo, collaboratore fra i più attivi del Piccolo di Milano, figura carismatica di quella nouvelle Milan, maestro dei maestri come Dario Fo, Franca Rame, Enzo Jannacci e Milly. Compositore della canzone contemporanea, lui e Gino Negri hanno imbarazzato quel mondo incredibile fra anni ’50 e ’70, in un flusso di creatività legata alla politica e alla società e di una cultura che andava a fondo di una sequela di problematiche che non potevano prescindere dal vivere quotidiano, dalla miseria e dalla non partecipazione degli organi di stato.
Fiorenzo Carpi ha aperto il mondo delle armonie in melodie di una bellezza mai effimera, di una ricercatezza caratteristica, rara, stupenda, innovativa. Lo stesso è avvenuto con la sue musiche per lo schermo. Ad esempio il Pinocchio di Luigi Comencini. L’intelligenza di Carpi stava nel rendere materia sperimentale un tema melodico che nascondeva una profondità di orditi armonici che sono profondità d’animo e di pensiero. Tutto derivava da uno studio molto serio e profondo con Giorgio Federico Ghedini, figura carismatica, innovativa e al tempo stesso enigmatica del Novecento compositivo italiano. Ghedini, come molti uomini del suo periodo, ricercava nuove funzioni della musica andando però a recuperare ciò che era già cultura. La sua notevole reinvenzione dei laudari, della musica ficta e l’incursione nella musica popolare, resero interessantissimo il suo linguaggio che non era sicuramente allineato alla stregua di ciò che facevano i suoi colleghi ma andava oltre, recuperava cellule armoniche che non sfociassero nello sperimentalismo tout court ma che andassero ad essere matrice di ricerca spirituale e soprattutto psicologica. Non è quindi un caso che fra gli allievi di Ghedini ritroviamo, oltre a Carpi anche Luciano Berio uno dei più incredibili esempi di coniugazione del linguaggio contemporaneo a quello del già esistente.
Fiorenzo Carpi dal suo maestro recupera l’idea della manipolazione del già esistente e crea un proprio linguaggio espressivo che potesse essere coniugato al presente con tanto di passato. La ragione della sua duttilità si ritrova proprio in quella continua ricerca di idee melodiche che provenivano però da un sentito interiore arcaico, ricco di riferimenti onirici.
Mai facile e mai banale, la complessità della costruzione melodica di Carpi risiede proprio in quella coniugazione di vari linguaggi, come si ascolta splendidamente nel tema per pianoforte per Incompreso di Comencini nel quale è molto evidente la tristezza della perdita che viene raccontata con il candore lieve di una melodia che richiama la scorrevolezza mozartiana; o la suite in stile rinascimentale che scrive per Marcellino pane e vino sempre di Comencini o il tema che scrive per Zazie nel metrò di Louise Malle.
Ma la lista della ricerca sperimentale di Carpi sarebbe lunghissima e il suo senso compiuto di canzone teatro è unico. Ciò che crea per Il Piccolo non ha eguali ed è sintesi concreta dell’insegnamento di Ghedini ovvero far d’arte ciò che è popolare. La sua infinita umanità e quell’imprescindibile sapere mai sopra le righe hanno reso oggi della memoria di Fiorenzo Carpi il ritratto di una persona che ha solcato i mari degli anni non scontati della nostra nazione, sorseggiando la vita come pochi e vivendo lui come Nino Rota e come Carlo Rustichelli quell’improprio divario compositivo che fa nascere ai puristi la classificazione fra musica applicata e musica pura o meglio assoluta.
Alla figlia Martina Carpi che si è adoperata per recuperare la figura e la memoria paterna attraverso il volume Fiorenzo Carpi Ma Mi di Stella Casiraghi e Giulio Luciani, abbiamo rivolto alcune domande.
Suo padre ha avuto sempre una forte matrice compositiva volta al recupero di melodie infantili. Sa raccontarmi qualche episodio in cui ha potuto cogliere questo tratto del suo stile compositivo?
Un punto di forza dello stile compositivo di mio padre è quello di aver sempre saputo mescolare alto e basso. Pur essendo un musicista colto con una formazione classica, non aveva preclusioni di sorta e non si tirava mai indietro di fronte alle sfide musicali che gli si presentavano. Anche se la sua musica si riconosce subito perché fortemente personale, era uno sperimentatore. Questa sua curiosità è probabilmente da attribuire tanto a una «visionarietà musicale» dovuta all’essere figlio di un pittore, molto evidente per chi lo conosce bene, quanto all’aver sempre coltivato la sua parte infantile. Capiva bene l’infanzia perché senza retorica sapeva raccontare il suo mai rinnegato aspetto di bambino timido e ribelle, e anche la crudeltà del mondo infantile, molto evidente nei temi del Pinocchio, ma anche in molte sue composizioni come Incompreso, Zazie dans le Metrò e altre.
Il lavoro con il Piccolo e con il cinema in qualche modo ha assorbito il tempo creativo di suo padre. Quali erano i momenti di svago quando non creava?
Amava molto andare a pescare. Ordinava per posta piume ed esche particolari, e poteva rimanere ore e ore in mare con una canna in mano, o a confrontarsi con i vecchi pescatori di Positano. L’astronomia era un’altra sua passione. Aveva un telescopio e trascorreva spesso le notti d’estate guardando le stelle. Se non fosse diventato un musicista sarebbe certamente stato un pittore, dipingeva veramente bene. Ma nonostante queste passioni solitarie era molto legato agli amici con i quali trascorreva lunghe serate non mondane ma conviviali, parlando di musica, teatro, arte, cibo.
Quando andò in onda per la prima volta il «Pinocchio» di Comencini in televisione si ricorda cosa provò ad ascoltare le musiche di suo padre?
Ricordo bene il periodo in cui stava componendo le musiche del Pinocchio di Comencini, infatti aveva uno studio al piano di sopra della nostra casa, c’era un punto nel tema principale che proprio non gli veniva. Credo sia stata l’unica volta in cui l’ho sentito cantare, continuamente, cosa che non faceva mai, fino a riuscire a risolvere quel nodo. Per cui quando andò in onda per la prima volta, conoscevo già bene tutti i temi. Una musica che parla dritto al bambino che è in ognuno di noi, e che giustamente continua a girare in tutto il mondo.
È rimasto qualche progetto incompiuto di suo padre e qualche desiderio che non ha mai potuto realizzare?
Il suo più grande rammarico è stato quello di non riuscire mai a finire l’opera tratta dalle Metamorfosi di Kafka, su libretto di Giorgio Strehler, commissionatagli dalla Scala di Milano negli anni ’60. Perché, come raccontava lui stesso, ogni volta che vi si dedicava, Strehler che prima lo esortava a chiudersi in casa per finirla, poi lo chiamava per qualche suo spettacolo nel quale non riusciva proprio a fare a meno delle musiche di Carpi. Spesso infatti le musiche di papà, il quale aveva una sensibilità straordinaria e conosceva benissimo il suo amico, lo aiutavano a chiarirsi dei punti chiave del suo teatro. Strehler era un uomo difficile, ma con mio padre, che spesso scappava da lui perché ne era stressato, ha avuto un grande rapporto di stima e affetto durato tutta la vita in cui il teatro entrava nel privato e viceversa. Erano molto amici e sono mancati a sei mesi di distanza l’uno dall’altro.
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