Abiti Betty Barclay, pagina pubblicitaria dalla rivista «Seventeen», 1960
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Alias Domenica

Fink e l’incantesimo filosofico della moda

Saggistica, filosofia Nel 1969 Eugen Fink, allievo di Husserl, pubblicò le sue lezioni sulla moda, gioco seduttivo che sembra parafrasare l’esistenza umana: le traduce Einaudi
Pubblicato 4 mesi faEdizione del 7 luglio 2024

Nel Fedone, il celebre dialogo platonico in cui si descrive la morte di Socrate e le ore che la precedono, il pitagorico Cebete avanza più di un’acuta obiezione ai tentativi socratici di provare l’immortalità dell’anima. In particolare egli paragona il rapporto fra anima e corpo a quello fra essere umano e abito affermando che un tessitore, produttore e consumatore nel corso della vita di più vestiti, non sopravvive tuttavia all’ultimo che tesserà e indosserà.

In modo analogo – dice Cebete – forse anche l’anima, dopo avere attraversato tante vite, è destinata a fare la fine del tessitore: in tal modo egli spinge Socrate a una complessa riflessione sulla causalità, passata alla storia come seconda navigazione.

Al di là della specificità tematica del dialogo, l’accostamento dell’anima all’abito è una delle tracce che Eugen Fink trova nella storia del pensiero a sostegno delle sue riflessioni sulla moda, ora tradotte in italiano a cura di Giovanni Matteucci con il titolo Moda Un gioco seduttivo (traduzione di Vincenzo Santarcangelo, Einaudi «PBE», pp. XXIV-98, euro 17,00).

Egli ritiene, infatti, che l’abbigliamento – l’ambito della moda a cui presta particolare attenzione – sia un segno peculiare della cultura umana, un gioco del desiderio e con il desiderio, un mezzo espressivo di autorappresentazione, anche nel modo in cui offre protezione, di quello strano animale – l’essere umano – che non si accontenta di restare così come lo ha fatto la natura. Non a caso l’obiezione di Cebete conforta anche una precisa concezione antropologica secondo la quale intendere la relazione fra corpo e anima, quindi fra apparenza e realtà, nei termini di una reciproca esclusione, in sintonia con la tradizione storico-metafisica inaugurata appunto da Platone, comporta una mancata comprensione dell’esistenza, se non un suo impoverimento.

Basta questo a comprendere che lo scritto di Fink è espressione di un’articolata teoresi e in tal senso per nulla accostabile alle pubblicazioni attuali sul tema, più o meno ascrivibili alla cosiddetta pop-filosofia o pop-sophia, ma invece riconducibile all’analisi della moda inaugurata alla fine dell’Ottocento dall’articolo di Georg Simmel su «Die Zeit» e che nel corso del Novecento ha coinvolto, fra altri, intellettuali come Walter Benjamin e Roland Barthes.

L’occasione per riflettere sulla moda capitò a Fink negli anni sessanta a Basilea dove si trovava per una supplenza accademica; là conobbe l’imprenditore tessile Walter Spengler che gli propose di tenere alcune lezioni per i responsabili delle filiali della sua azienda. Quelle lezioni-seminario, tenute nel 1967, furono poi raccolte in un volume pubblicato in Germania nel ’69 (Mode. Ein verführerisches Spiel, Birkhäuser Verlag): organizzate in sette capitoli affrontano la moda – fenomeno centrale in quegli anni di decisive trasformazioni sociali – in costante riferimento all’analisi dell’esistenza umana.

Sulla base della sua formazione fenomenologica, in cui si compongono gli insegnamenti ricevuti da Heidegger e da Husserl, Fink vede, infatti, la vita dell’Homo sapiens come una trama di relazioni fra mente, corpo e mondo che precede la contrapposizione fra soggetto e oggetto, fra chi conosce e ciò che viene conosciuto, così come fra essenza ed esistenza. La concretezza dell’esperienza umana si dipana, a suo dire, attraverso fenomeni ambigui nei quali si annodano in modo polare, quindi inestricabile, e in forme sempre diverse, l’immutabile e il contingente, inficiando nei fatti ogni concettualizzazione dicotomica.

La riflessione sulla moda si sviluppa proprio su questo sfondo ed è opportunamente presentata da Matteucci, nell’edizione italiana, come parte integrante dell’indagine finkiana dell’essere umano nella dimensione mondana, non certo una «scappatella filosofica», come invece affermava la figlia Susanne nella biografia del padre pubblicata in italiano nel volume Eugen Fink. Interpretazioni fenomenologiche (a cura di Adriano Ardovino, NEU 2011).

Del resto è proprio Fink a pronunciarsi contro il discredito filosofico della moda, di cui hanno fatto le spese probabilmente anche queste riflessioni, sottovalutate in genere persino dagli stessi studiosi della sua opera.

Egli, infatti, riconosce alla moda «uno statuto filosofico speciale, lo statuto di fenomeno-chiave» (p.96) in cui più che altrove si mostra l’ambigua unicità dell’essere umano e delle sue esperienze: «un essere strano, non finito, un torso della natura, incompleto e pertanto in continua tensione, nel tentativo di trovare una forma e una figura» (p.12). Non a caso, prosegue Fink, siamo creature e creatori a un tempo, destinati ad auto-forgiarci, a fare di noi stessi la materia di un’attività produttrice istitutrice di senso, che attribuisce cioè significati trasfigurati alle sue creazioni, a partire da quelle biologiche, che così eccedono il piano della mera funzionalità. L’essere umano, infatti, esiste in quanto corpo, non certo perché lo possiede come se fosse un oggetto, e quale corpo vivente (Leib non Körper) pensa e agisce, dal momento che la ragione «vive nel risonante linguaggio e nelle sue immagini» (p. 15), e persino la libertà è radicata nell’esistenza e si manifesta tanto nella lotta per il dominio e per il potere, quanto nel lavoro, negli oggetti artificiali prodotti dalle nostre mani e necessari soltanto a noi in quanto corpi viventi.

In tal senso la dimensione corporea costituisce la realtà umana individuale e comune che Fink vede caratterizzata dalle cinque attività essenziali di «lavoro, lotta, amore, gioco, culto dei morti» (p.17). Fra queste, il gioco ha uno statuto particolare perché, a differenza delle altre attività umane, è alieno da qualsiasi strumentalità come da aspirazioni verso finalità estranee al presente.

Più precisamente nella prospettiva di Fink, in cui è forte l’eco eraclitea e nietzscheana a un tempo, il gioco «replica e rispecchia nella propria sfera tutte le imprese serie al modo del come se: parafrasa ironicamente quel che è serio, mette in scena onori, titoli, questioni importanti, affari e conflitti, fa comparire magicamente un mondo di apparenza e nondimeno non vi soccombe» (p. 67). Proprio nel gioco e nella socievolezza che esso istituisce rientra la moda con i suoi incantesimi seduttivi e suggestivi in cui le novità appaiono e scompaiono in un istante, il corpo gioca con la propria nudità ed eroticità velandosi e disvelandosi, il bello mostra il suo straordinario potere di attrazione.

Si tratta di incantesimi che Fink vede in modo dialettico, per certi versi come Simmel, che però mai è citato, convinto che l’istinto imitativo da cui «il branco umano è biologicamente governato» (p. 33) e che consente anche la diffusione della moda, venga sublimato attraverso la libertà giocosa di ciascuno, quella stessa che permette di affrancarsi da ruoli esistenziali definiti e dalle loro costrizioni. Fra massificazione e libera espressione individuale c’è dunque tensione, mai reciproca esclusione, così come c’è tensione fra moda e gusto, anzi l’industria della moda, secondo Fink, lungi dall’essere una minaccia per il gusto, potrebbe invece favorire «un’elevazione delle masse a un gusto raffinato» (p. 74).

Sono toni appassionati che oggi appaiono davvero fiduciosi, forse troppo, nei quali è difficile non scorgere l’azione dello spirito del tempo a cui Moda risale, un tempo in cui le possibilità di libertà e di emancipazione individuali e collettive parevano ai più davvero a portata di mano.

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