Finalmente arrivano i “Perennials”
Oggi me la cavo con una citazione. La recensione di un libro che probabilmente non leggerò, ma la cui descrizione mi ha divertito e un po’ consolato. Quando ci si trova oltre i 70 (non di molto, eh) e gli acciacchi si moltiplicano come i guasti delle vecchie automobili, così spesso in officina, ogni tanto si è assaliti da pensieri malinconici, e dalla tentazione di avventurarsi in bilanci che potrebbero rivelarsi non molto positivi.
Ma ecco che qualcosa ci distoglie da queste cupezze.
Mi è successo leggendo la segnalazione, sulla Domenica del Sole 24 Ore dell’altro ieri, del libro di Mauro Guillén The Perennials: The Megatrens Creating a Postgenerational Society (St.Martin’s Press, pagg. 250) da parte di Andrea Goldstein. Non so perché tutte quelle maiuscole, copio senza pensarci.
D’altra parte il recensore ha una riserva proprio sul titolo: neologismi fantasiosi e la parola “mega-tendenze”, scrive con ragione, fanno subito pensare non a un saggio rigoroso, ma a un prodotto destinato alle “librerie d’aeroporto”. Ci rassicura subito, però: l’autore del libro è un sociologo spagnolo serissimo, che ha già alle spalle una solida bibliografia scientifica.
Non posso negare, da parte mia, che proprio quel neologismo, Perennials, ha attirato la mia attenzione, tanto da proporre la parola nel mio titolo, sperando che produca qualche lettore e lettrice in più…
Ma arriviamo al dunque. Chi sono questi Perennials?
Siamo noi! Siamo noi che abbiamo sorpassato i sessant’anni, e che nel mondo (soprattutto occidentale, ma non solo) costituiamo di fatto il nerbo della struttura sociale.
L’età media in cui si va in pensione nei paesi europei è 64 anni, quindi in buon numero siamo ancora al lavoro da qualche parte. Ma avere anche qualche anno in più, osserva gentilmente Goldstein, «non è più l’anticamera dell’ospizio, o di un appuntamento ancora più definitivo». Ecco un aspetto interessante dell’«inverno demografico» che terrorizza demografi e politici.
È venuto il momento di abbandonare certe generalizzazioni sociologiche basate sulle presunte identità generazionali.
Quante volte abbiamo sentito parlare dei millennials? Ma che cosa accomunerà un giovane che studia nel college a New York a un altro che si guadagna (poco) da vivere in una fattoria di campagna? Inoltre, come si sa, c’è grande “fluidità”. Ognuno cerca il proprio sé e gli scambi tra le generazioni e i sessi sono i più variegati. Le tecnologie incoraggiano queste trasformazioni verso una società, dice il libro, sempre più multigenerazionale e intergenerazionale. A quanto pare sorgono pratiche di reverse mentoring, vale a dire anziani che imparano dai giovani le diavolerie digitali, e giovani che imparano dagli anziani competenze più antiche ma sempre indispensabili.
Si potrebbe anche pensare a riconoscere ai nonni e alle nonne ancora al lavoro di utilizzare congedi per badare ai nipotini.
A questo punto il mio iniziale entusiasmo si è un po’ raffreddato. Stai a vedere che tutto va a finire nelle ennesime escogitazioni capitalistiche che facendo finta di venire incontro ai desideri e al reale modo di essere degli esseri umani hanno di mira solo l’«efficientamento» (orribile parola) dei sistemi produttivi, amministrativi, finanziari ecc.
In questo caso non voglio nessun riconoscimento psicosocioeconomico di sorta. Nessun nuovo marketing che ci blandisca per «contribuire ai risultati dell’organizzazione in cui ci si trova», come conclude la recensione.
Però c’è un’ultima riga, che riapre altri panorami: questa “organizzazione in cui ci si trova” «non necessariamente è solo l’azienda».
Cari/e/* perennial, forza con la fantasia.
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