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Filodemo, semiotica epicurea nella Villa dei papiri

Filodemo, semiotica epicurea nella Villa dei papiriErma di filosofo o poeta, Ercolano, Villa dei papiri, rinvenuta nel peristilio rettangolare il 25 aprile 1752, Napoli, Museo Archeologico Nazionale

Pensiero antico Passare dal noto all’ignoto col metodo «induttivo»: da ETS nuova edizione commentata del trattato «De signis» di Filodemo di Gadara (il filosofo amico dei Pisoni), riportato alla luce a Ercolano

Pubblicato più di un anno faEdizione del 30 luglio 2023

Quando Filodemo arrivò in Italia intorno al 74 / 73 avanti Cristo, di certo non aveva idea della singolare sorte che sarebbe toccata prima a lui, poi alle sue opere. Ma essendo un filosofo epicureo, oltre che un raffinato poeta, non se ne sarebbe stupito poi molto, ben sapendo che il caso, giocando con il flusso degli atomi, poteva produrre eventi fra i più imprevedibili. In Italia dunque Filodemo ebbe la ventura di conoscere Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, un uomo potente, destinato a diventare addirittura suocero di Giulio Cesare, il quale possedeva una delle ville più sontuose ed eleganti che si affacciavano sul mare di Ercolano.

Nella Villa dei Pisoni Filodemo venne non solo ospitato per molti anni, ma trattato con grande reverenza, visto che la biblioteca di casa finì per ospitare, nel corso del tempo, gran parte delle sue opere. La Villa dei Pisoni, ad Ercolano, doveva essere una sorta di cenacolo di cultura, che ospitava letterati illustri, come Plozio, Tucca, Quintilio Rufo, Sirone, ossia il maestro di Virgilio, e lo stesso autore dell’Eneide. Un ambiente meraviglioso sia per la bellezza dei luoghi sia per la qualità della conversazione che si svolgeva fra gli ospiti: la quale, possiamo arguire, doveva essere fra le più elevate e interessanti.

Filodemo di Gadara (così viene chiamato, perché originario di questa città della Siria) ebbe dunque fortuna nella sua vita, così come la ebbe, in un certo senso, nel lasciare questo mondo oltre un secolo prima che la Villa dei Pisoni venisse completamente distrutta dall’eruzione del Vesuvio che ebbe luogo nel 79 dopo Cristo. Passarono molti secoli da quel tragico evento, ma nel 1738 una scoperta casuale (la presenza sotterranea di un bellissimo pavimento di opus sectile) spinse gli archeologi a scavare nell’area dove un dì sorgeva la villa, riportandone alla luce buona parte delle strutture originali.

Gli scavi durarono anni, anzi decenni, ma la sorpresa più grande venne da un piccolo ambiente dell’edificio – circondato da altri locali simili e da un’esedra che sfociava sul bellissimo peristilio – nel quale vennero alla luce quasi duemila rotoli di papiro, carbonizzati dal fuoco dell’eruzione ma ancora identificabili come tali. Da quel momento la Villa dei Pisoni divenne, inevitabilmente, la Villa dei Papiri, e da parte degli studiosi ebbe inizio un’opera infaticabile di identificazione e – possibilmente – decifrazione di questi ardui ritrovamenti.

La storia di questa lotta fra i papirologi da un lato, l’opera distruttrice del fuoco dall’altro, è cominciata presto, ha subito fasi alterne e talora romanzesche ma, soprattutto, dura ancora. Perché a dispetto del fatto che gli umanisti abbiano spesso mostrato indifferenza (se non sufficienza) nei confronti delle tecnologie, talora ricambiati con analoghi sentimenti da parte di scienziati e tecnici, i papiri di Ercolano hanno suscitato la creazione degli strumenti più disparati e raffinati per risolvere l’arduo problema di srotolare e decifrare rotoli di papiro ridotti a tizzi di carbone: dalla macchina ingegnosamente creata dall’abate Piaggio alla fine del XVIII secolo, fino alle moderne letture realizzate col metodo multispettrale della Brigham Young University, Provo, Utah, non che quelle ottenute con il metodo monospettrale.

L’Officina dei Papiri, creata da Marcello Gigante nel 1969, costituisce ormai il più importante centro di studi sui testi ercolanesi che esista al mondo; e al suo interno i papirologi continuano nella loro preziosa, impagabile opera di decifrazione di questo patrimonio.

Per quello che si è potuto accertare, la biblioteca della Villa doveva esser composta quasi esclusivamente da opere greche. Fra i testi sinora riportati alla luce, infatti, praticamente non figura alcuna opera latina – circostanza davvero singolare, dato il genere di intellettuali e poeti romani che, come sappiamo, la Villa soleva ospitare.

Tale predominio dei Greci non impedisce peraltro ai latinisti di coltivare la segreta speranza che, prima o poi, tramite l’ausilio delle moderne tecnologie vengano restituite loro opere che si ritengono altrimenti perdute per sempre, come gli Annales di Ennio o gli scritti eruditi del grande Varrone … La cosa che ancor più colpisce, però, è la quantità di opere di Filodemo che il laborioso srotolamento dei papiri ha finora riportato alla luce. Al filosofo di Gadara possono infatti essere riferiti almeno settanta rotoli, contenenti scritti che svelano una molteplicità di interessi davvero impressionante.

Si può dire infatti che nessuna branca della filosofia, per come allora era concepita, abbia lasciato indifferente Filodemo. Si contano infatti opere di storia di questa disciplina, trattati di carattere estetico (come una Retorica e una Poetica), saggi sui modi di vita e le passioni, importanti scritti di natura teologica (gli dèi, la loro natura, il loro comportamento erano temi cui gli epicurei destinarono particolare attenzione).

In questa vasta biblioteca, però, un posto speciale tocca a un’opera che il suo primo editore, Theodor Gomperz, battezzò De signis, «Sui segni», e il cui titolo greco originale (che mal si legge sul papiro) doveva probabilmente suonare come «Sui fenomeni e sulle inferenze segniche». Proprio così: quest’opera di Filodemo era appunto un lavoro di carattere semiotico, si occupava cioè del funzionamento dei segni e delle garanzie necessarie affinché le cognizioni, ottenute attraverso questo strumento intellettuale, potessero vantare garanzie di validità.

Sapevamo che il problema costituito dal segno in generale era ben presente alla teoria epicurea della conoscenza. Ma certo quest’opera di Filodemo, interamente dedicata all’inferenza semiotica, costituisce una riflessione che, specie nel panorama filosofico attuale, manifesta un carattere di notevole modernità. Non a caso il De signis attirò l’attenzione anche di Charles Saunders Pierce, uno dei padri della moderna semiologia.

L’edizione più recente dell’opera risale al 1978, allorché Marcello Gigante, Francesca Longo Auricchio e Adele Tepedino Guerra, esaminarono di nuovo il papiro con l’ausilio di un microscopio binoculare, pubblicandone il testo accompagnato da una traduzione inglese. In questi giorni però il De signis di Filodemo torna in libreria, se possiamo usare questa espressione, per merito di due studiosi italiani, entrambi appartenenti all’Università di Siena: Giovanni Manetti, semiologo e antichista, e Daniela Fausti, papirologa e studiosa di medicina antica.

L’opera, pubblicata dalle Edizioni ETS nella collana «Semeia» con il titolo di De signis Sui fenomeni e sulle inferenze semiotiche (pp. 375, euro 34,00) contiene la riproduzione anastatica del testo greco, la sua traduzione in italiano, un ricco (e preziosissimo) commento, seguito da un ampio saggio di Manetti sul contenuto e il valore del De signis; non che da uno scritto di Fausti sulle tracce lasciate nel De signis dal linguaggio e dalla metodologia semiotica utilizzati nelle opere di medicina antica.

Era stata proprio la scienza medica, infatti, sin dai più antichi scritti ippocratici, a servirsi dei «segni» per risalire dal noto all’ignoto: ovvero dai sintomi constatabili sul corpo del paziente, alla natura delle affezioni morbose di cui si poteva ritenere che tali «segni» costituissero la manifestazione visibile. Il che costituisce proprio il nocciolo del problema cui Filodemo specificamente dedica la sua opera, ossia il «passaggio» dal noto all’ignoto nella conoscenza: e soprattutto le garanzie di validità che tale processo esige. Per questo si è potuto parlare, in riferimento al De signis, di un vero e proprio metodo induttivo: in altre parole, con una anticipazione di circa sedici secoli rispetto a quello che verrà proposto da Francesco Bacone. In che cosa consisteva il procedimento semiotico proposto da Filodemo? L’opera ce lo presenta sotto la forma di risposte a ignoti avversari (stoici? accademici?) delle teorie semiotiche condivise dagli epicurei.

In breve, l’inferenza semiotica che Filodemo propone è basata sul principio di «similarità». In altre parole, essa prevede che alcune caratteristiche, osservate negli oggetti appartenenti alla nostra esperienza, vengano proiettate su oggetti dello stesso tipo (ovvero simili) che si trovano invece al di fuori di essa. Diviene così possibile avere conoscenza di ciò che è sconosciuto attraverso la «similarità» che esso presenta con ciò che è conosciuto.

Per fare un esempio, data una o più entità in cui sappiamo che sono presenti le caratteristiche x e y, e che mostrano di possedere anche la proprietà z, noi possiamo inferire che, se incontriamo altre entità non ancora completamente conosciute che presentano le proprietà x e y, allora presenteranno anche la proprietà z. In concreto, se noi sappiamo che gli uomini da noi conosciuti «sono fatti di carne» e «sono soggetti alla vecchiaia», e osserviamo che hanno anche la caratteristica di «essere mortali», allora potremo inferire che, se incontriamo altri esseri che hanno le prime due proprietà, essi saranno anche mortali.

Rispetto alle teorie del segno elaborate dai filosofi precedenti, come Aristotele, la teoria epicurea proposta da Filodemo presenta una importante novità: ossia l’esplicita teorizzazione della «base» su cui, preliminarmente, occorre fondare un’inferenza attraverso i segni: e non la semplice verifica a posteriori, a cose fatte, della inferenza stessa.

A questo punto il discorso sulla teoria semiotica di Filodemo dovrebbe continuare a lungo, analizzando (come del resto lui stesso diffusamente fa) le obiezioni degli avversari, e le risposte che di volta in volta il filosofo fornisce per rintuzzare i loro argomenti. Purtroppo però non ne abbiamo lo spazio.

Preferiamo perciò arrestarci qui, lasciando piuttosto che il pensiero scorra all’indietro da questa nuova, bellissima edizione del De signis al ritrovamento casuale prima della Villa poi dei papiri, all’orrore dell’eruzione, all’arrivo in Italia del filosofo di Gadara e al suo incontro con Pisone… Tutti eventi legati fra loro da fili tanto invisibili quanto casuali: a dimostrazione che la teoria fisica epicurea, con i suoi atomi che si muovevano, scontravano e combinavano variamente nel vuoto, non era poi così infondata.

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