Visioni

«Filmcritica», il pensiero delle immagini, il desiderio dello sguardo

«Filmcritica», il pensiero delle immagini, il desiderio dello sguardoUna scena da «I Don’t Want to Sleep Alone» di Tsai Ming Liang tra i film di «Filmcritica» 700

Riviste Fondata da Edoardo Bruno settant'anni fa, da ora è passata sul web. L’ultimo e prezioso numero, il 700, in carta: Straub, Godard, Akerman, Demme, Ray, un’amorosa storia del cinema

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 9 ottobre 2020

Evidentemente la carta, la sua superficie porosa sembra essere il luogo privilegiato del pensiero: lo suscita in relazione al tatto,al possesso quasi erotico che si verifica mentre si apprende, si soppesa, si fagocita il concetto. Si può supporre allora che ogni sapere sia legato in vario modo al feticcio. È qualcosa di simile al «pensiero vizioso»di Klossowski per cui pensare è agire, e l’azione, al di là dell’ingiunzione utilitaristica, non può che entrare in rapporto con le carni, ed essere volta al piacere.

DI QUI, all’insegna del tatto, si potrebbe sgranare una lunga rassegna di pensatori, da Nancy artefice del tocco, del corpo e del sesso come inventore di senso e di spazi, fino almeno a Perniola e al suo sex-appeal dell’inorganico, la pagina, il foglio appunto. «Filmcritica», giunta al numero 700 dopo settant’anni di fascicoli ieratici e sperimentali, vi rinuncia adesso per riservarsi uno spazio sul web; per provare a traslare quel pensiero così tattile, quella tensione filosofica alla base di ogni suo dire, nello spazio intangibile di internet.
Si tratta di adeguarsi ai tempi che corrono, di assumerne su di sé «la catastrofe» e accogliere l’idea del virtuale; o di supporre una nuova epidermide che figuri e incarni il pensiero. Il che nel primo caso può essere inteso come uno stimolo a dire l’impensato, come un riversamento della scrittura nell’infinita potenzialità di forme, sintassi, morfologie grafiche: il virtuale appunto. O d’altra parte si può immaginare una diversa tattilità e visualità in rapporto all’inorganico.

Già Edoardo Bruno, poco prima di scomparire, apre quest’ultimo imperdibile numero a stampa evocando Benjamin – poi richiamato anche da Sergio Arecco a proposito di Kafka nel suo saggio su Straub, e da Francesco Salina che problematizza l’idolo nel cinema di Kenneth Anger – quando scrive: «Se sotto lo sguardo della malinconia l’oggetto diventa allegorico, se da esso la vita può defluire, se rimane lì come un oggetto morto ma garantito per l’eternità, per l’allegorico esso è lì consegnato alla sua discrezione».
È tale l’apporto di questa rivista fondata nel mezzo della stagione neorealista, mentre andavano definendosi le idee di Bazin come viatico al pensiero di Deleuze: considerare l’immagine non come qualcosa di consegnato una volta per tutte, ma in quanto entità che pensa, può pensare, che vede e ci restituisce lo sguardo. La trepidazione, lo stupore, lo shock che proviamo di fronte a certe immagini è l’effetto di questo essere guardati dal cinema e contagiati, tirati dentro il suo scenario di luce, riverberi e fantasmi perpetui.

NON È UN CASO che la sezione di saggi, anzi la serie di concatenazioni – di film in film che si richiamano tra loro per una serie di ragioni evocate da Pietro Montani – intitolata «Ritorno al futuro» (film su cui poi tornerà Fabio Segatori) si apra con una costellazione firmata da Daniela Turco dal titolo Echi da un regno oscuro, partendo da Chantal Akerman (di cui si occuperà, dopo, anche Ilaria Gatti) e arrivando fino a Tsai Ming Liang, al finale stupefacente di I Don’t Want to Sleep Alone, che ci vede e ci invita galleggiare nel sogno di uno dei finali più belli della storia del cinema. Lì c’era un silenzio sonante, pregnante, prima della voce femminile che lo rompeva con il canto: è lo spunto di Cappabianca, il silenzio così eloquente in queste pagine, tra Bergman, Reitz, Scorsese, mentre Causo riprende Debord e Nicholas Ray per dire una volta di più, con la forza della sintassi, che «il sogno di quella cosa che è la vita» non può che persistere (deve farlo) coincidendo con il filmabile. Lo stesso di cui Schadhauser fa un distinguo ponendosi di fronte al digitale in modo problematico; o che Michele Moccia rievoca nostalgico nel momento iniziatico: uno stupore alla Erice. Si tratta di analisi approfondite, aperte da una serie di immagini topiche proposte da vari registi, che non notomizzano i film ma li reinventano, li fanno muovere tra le righe, li fanno vivere. Come le Cose ultime di Lorenzo Esposito in bilico nel territorio ultradenso (non) delimitato da letteratura, cinema, musica: una galassia di corrispondenze luccicanti, o baratri, varchi, come approssimazione «all’imponderabile che chiamiamo memoria».

Così come Mazzotta passa dalla pittura al cinema, da De Chirico a Godard a John Ford con la stessa profondità di sguardo di Giovanni Festa intento, come un iniziato al culto della teoria, ad approdare fino ad Andrej Rublev: è un senso mistico, anche metafisico che bagna le immagini di cui si occupa Nardi tra Godard, Bellini, Tintoretto, costituendo per certi versi il controcanto all’analisi di «cinema e scienza» che fa De Martino citando cose dimenticate come Jekyll, la serie televisiva del 1969.

E A PROPOSITO di teoria, di varchi, di concatenazioni, Dottorini evoca Deleuze e il suo nomadismo per riferirsi al viaggio cinematografico non come racconto (di viaggio) ma come struttura: spiccano Kramer, il Gus Van Sant di Gerry, finalmente il Wenders forse più dimenticato, quello di Fino alla fine del mondo a cui giunge anche Mariateresa Oldani considerandolo un esempio di cinema dell’esperienza.

Ma non è mai una fine, questa l’ingiunzione che riecheggia ovunque nel fascicolo: se mai un eterno ricominciamento secondo la visione di Bruno Roberti che fa una breve alchemica storia del cinema cominciando con Griffith per arrivare a Days di Tsai Ming Liang; o di Alessia Cervini nel momento in cui si sofferma sulla vertigine dei corpi cinematografici (magari Mouchette rotolante giù da un pendio) che ha in sé «l’auspicio di un nuovo, interminabile inizio». O nella declinazione di danza, festa – perché ci saranno altre immagini e altre scritture – a firma di Simone Emiliani, artefice di un passo triplo: Ford, Ophuls, Lyne. E Pastor, alla fine, dopo una struggente analisi del contagio, della malattia tra Vecchiali e Demme, approda alla possibilità, all’opera aperta dello scrittore Hervé Guibert. Il che si ricollega al mio contributo sulla malattia d’amore, il contagio delle immagini amorose, erotiche, che scandisce il nostro sogno d’esistere.

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