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Figure amate, evase dal sogno e finite in pagina

Figure amate, evase dal sogno e finite in paginaLuca Padroni, Incanto domenicale

Scrittori italiani Partitura romanzesca per tre addii: a Arturo Patten, a Amelia Rosselli, a Cesare Garboli. «Sogni e favole», di Emanuele Trevi, è il racconto di relazioni fatte di non detti e illuminazioni: da Ponte alle Grazie

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 3 febbraio 2019

La funzione della critica si risolveva, per Robert Musil, nell’essere un più e un meno: nel tentare di ordinare la vita, restando debitori alla vita stessa di molti particolari, ma donandole in compenso qualcosa di generale. Nell’interstizio di quel più e quel meno, nel suo essere critica e romanzo, deduzione e invenzione, abita il nuovo «libro strano» di Emanuele Trevi, Sogni e favole (Ponte alle Grazie, pp. 220, € 16,00). Come si vede scritto in copertina, è un romanzo; ma al tempo stesso respira con provocatoria nonchalance l’aria tremante, come elettrificata dall’esperienza viva, del saggio critico.

Il libro è intrigante, sembra sfidare il lettore a ricondurre una sostanza rarefatta – ricordo, bolla, sogno – al desiderio di equilibrio, di armonia. Torna in mente l’immagine della limatura di ferro, in un vecchio, quasi tenero esperimento di molti anni fa, che si faceva utilizzando un grande foglio bianco e due calamite: la prima rappresentazione, mandata a memoria da tanti di noi, di un campo elettromagnetico. Anche qui, in Sogni e favole, due posizioni radianti: il sogno e la vita vissuta. Messe in tensione, sviluppano tre onde, tre ellissi di forze, disposte una sopra l’altra, a rendere conto di tre esistenze in successione: della loro lotta con il mondo fatta di meraviglia, disorientamento, estraneità.

Tutto cominciò con Metastasio
A raccontarle è un Io autobiografico, ragazzo negli anni Ottanta, sospeso tra la clausura del ricercatore, nelle sale di vetro della Biblioteca Nazionale, e quella del primo impiego in un cinema d’essai, tra un destino da critico accademico e uno da outcast metropolitano. La prima vita appartiene a Arturo Patten, all’occhio che affiora acuto dai suoi ritratti fotografici; la seconda è di Amelia Rosselli, un «classico» della poesia italiana del secondo Novecento; la terza è di Cesare Garboli, il «grande critico», la fonte primaria della ricerca di un «qualcosa di generale» per cui vale la pena di saldare il debito con la vita. L’idea forte di Trevi sta nel raccontare tre esistenze vere, storiche, una dentro l’altra, con i ricordi, le scie, le scorie ferrose e dolorose lasciate alle spalle dal loro lavoro, quel lavoro che si è depositato in chi ora ne scrive. Basta calamitare la memoria in due punti di una geografia urbana molto piccola, e subito le tracce dell’autore si ricompongono, per farsi segmenti di romanzo.

Neanche duecento metri separano Via del Corallo da Santa Maria della Pace: in quel perimetro stretto, dietro Piazza Navona, hanno abitato a poche porte l’uno dall’altra Arturo Patten e Amelia Rosselli; appena più avanti, nella piazzetta a semicerchio che sembra un palcoscenico, Emanuele Trevi ha ascoltato per la prima volta Cesare Garboli recitare un sonetto di Metastasio, Sogni, e favole io fingo…: una poesia in cui l’idea della scrittura compare come ossessione rapinosa, come una energia che sradica dalla saldezza della vita e la dispone all’interno di una geometria tutta propria, illuminando la nostra storia quotidiana come il dolore all’interno di un corpo.

Proprio Metastasio, il poeta vezzeggiato e parruccone, nel cuore dell’Europa delle corti, ci costringe insomma a cercare l’equivalenza, la sostanziale inseparabilità, di invenzione e realtà, sogno e vita quotidiana. Anche la Roma di Metastasio è lì, vicinissima: a Via dei Cappellari c’è una lapide che ne ricorda il luogo di nascita. E da lì, in una strana notte di pioggia fredda, il narratore comincia a camminare intorno a Campo de’ Fiori, in quelle vie che il poeta cesareo aveva voluto lasciarsi per sempre alle spalle. Luoghi di consistenza granulosa, tufacea, di devozioni barocche e odori di cucina; spazi disorientati, quasi accasciati sotto il peso della loro aria popolana, persino oggi, nonostante le boutiques e i turisti che non corrono più il rischio di perdersi. A partire da quelle viuzze, interpretare Metastasio, farne risuonare i versi nella mente, diventa una missione e una scommessa: la sua Olimpiade era una storia di amore e di amicizia, finita nelle musiche e sulle scene di un secolo intero, dove si sentiva la rinuncia, la voglia di venire dimenticati, di diventare noi stessi un’illusione, un sogno, una favola.

Allo stesso modo ora, nei tre personaggi raccontati da Emanuele Trevi, vivono tre forme di arte: quella che detta il tempo della fine, nella fotografia di Arturo Patten; quella che parla come un’ossessione, nei versi di Amelia Rosselli; quella che si traduce in domande impertinenti, nella critica di Cesare Garboli, che Trevi andrà a trovare a Vado di Camaiore, per un’intervista destinata a diventare il punto di origine di questo romanzo.

Una liberazione e una prigione
Così, Sogni e favole diventa anche il racconto di relazioni problematiche, piene di non detti e di illuminazioni improvvise, dove i magnetismi tra le persone – che pure si sono incontrate – hanno funzionato solo in parte. Il libro è dunque un romanzo-saggio, una di quelle partiture di ricerca che insistono a guardare come nella vita – anche nella più rispettabile e lineare delle vite – ci si possa perdere. È, al tempo stesso, una scrittura degli addii, del congedarsi sapendo che è l’ultima volta, e bisogna raccogliere le proprie cose, ripensare bene all’immagine finale della persona amica che ci abbandona, poi lasciarla andare. Queste tre vite se ne vanno infatti una dopo l’altra, in ordine inverso alla loro comparsa: i morti – scrive Trevi – «sono evasi dal sogno, si sono risvegliati nella verità». Ma nulla viene trasceso. Semplicemente, si passa all’altro polo del magnete: una liberazione e insieme una prigione. Per chi legge, resta da amministrare una eredità singolare, i ricordi di un viaggio che è anche limpidamente critico, tra l’incontro con le opere e quello con l’esistenza degli autori, inevitabilmente abbracciata dalla finzione di cui diventano parte.

Lukács scriveva che era questa la grande legittimazione del romanzo sul mondo convenzionale dell’epica. Eppure, è anche vero che il richiamo di una forma nell’altra ci fa sentire, a volte, disgregati, impediti al mondo. Forse per questa ragione tornano a farsi vive, nelle pagine finali di Sogni e favole, le fonti: i realia, i materiali di studio, persino una bibliografia. Non tutto è andato perduto, un’eredità si può – si deve, anzi – ricostruire. Sta qui, probabilmente, il senso delle epigrafi fotografate nel libro: parole, nomi e date che prima o poi non si sforzeranno neanche più, direbbe Andrea Zanzotto, di galleggiare sulla pietra.

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