Figli/e del desiderio e della libertà
In una parola Sul tema della natalità serve una rivoluzione simbolica che compete principalmente a noi maschi
In una parola Sul tema della natalità serve una rivoluzione simbolica che compete principalmente a noi maschi
Che pensare del fatto che in Italia si fanno pochi, pochissimi figli? Abbiamo sentito Mario Draghi («un’Italia senza figli è un’Italia che non crede e non progetta») e il Papa che apprezza l’idea governativa dell’«assegno unico» per sostenere la riproduzione della specie italica.
Certo ci sono buoni propositi, ribaditi dal premier, per rimuovere o mitigare le difficoltà che sconsigliano alle giovani donne e alle giovani coppie di mettere al mondo altre creature.
Ma ieri, con un lungo articolo sul Foglio, Ritanna Armeni ha nominato una evidenza rimossa in tutta questa non nuova discussione sul calo demografico: si fanno meno figli perché le donne scelgono liberamente di non farli. E questa scelta non è dovuta, molto spesso, al disagio delle condizioni economiche e materiali, ma a un modo diverso di intendere la propria vita e, appunto, la propria libertà. «Le donne – osserva Ritanna Armeni rivolgendosi a Mario Draghi, del quale pure apprezza le intenzioni – non vogliono diventare madri proprio perché sono più libere e non soggette all’autorità maschile».
Certamente sarà utile, se alle promesse seguiranno i fatti, aumentare gli asili nido, eliminare il gap salariale, promuovere l’occupazione femminile, spingere i maschi a occuparsi un po’ di più delle faccende domestiche e dei figli prevedendo congedi familiari, ecc. Ma ciò che è più importante per resuscitare il desiderio di procreare è «dare alla maternità un ruolo sociale fondante e lasciare alle “cattive ragazze” tutta la loro libertà e, se la vogliono, altra ancora». Ciò che implica «una rivoluzione culturale e materiale».
Una rivoluzione simbolica, aggiungo io, che compete principalmente a noi maschi, se ci decidessimo a vedere che «una sfida positiva alla nuova libertà femminile» vuole «un rovesciamento di mentalità». Pensiamo soltanto alla cultura diffusa di quegli imprenditori, per lo più maschi, che quando assumono una donna sono preoccupati prima di tutto che non pensi di rimanere incinta. O a tutti quei sindacalisti che non vedono come per affrontare adeguatamente il tenere insieme l’aumento del Pil e quello delle nascite ci vorrebbe un’altra rivoluzione nel modo di concepire il rapporto tra vita e lavoro.
Tra l’altro in una fase in cui la rivoluzione tecnologica, se fosse gestita nell’interesse dei molti anziché dei pochi già privilegiati, consentirebbe davvero di lavorare meno, lavorare tutti e tutte, e vivere meglio. Un cambiamento così profondo nelle menti maschili però sembra molto difficile. Bisognerebbe chiedersi il perché. Forse manca un pensiero maschile adeguato proprio sulla maternità, oltre che sulla paternità. Il che vuol dire intanto pensare meglio al rapporto con la propria madre, e con la madre, reale o ipotetica, dei nostri figli.
Ci siamo trastullati per circa un secolo con la faccenda dell’«invidia del pene» da parte delle donne. Freud è stato un grande genio, ancora troppo poco studiato da chi si occupa di cose pubbliche e di sentimenti individuali e collettivi, ma credo che su questo punto abbia preso una cantonata. Guardando ieri la copertina dell’Espresso, che provocatoriamente sostiene nuovi diritti col disegno di un maschio con la pancetta di una gravidanza e la scritta «la diversità è ricchezza», ho provato una sensazione di disagio. E pensato che, chiunque abbia immaginato e disegnato quella figura, a me parla di un profondo e pericoloso sentimento di invidia maschile per la capacità femminile di metterci al mondo. Abbiamo forse il sapere tecnico scientifico per cambiare radicalmente il nostro modo di esistere.
Guai se prevalessero i desideri più oscuri di chi finora ha avuto più potere.
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