Era stata la colonna sonora più bella della Mostra di Venezia 2021 – per lo più giri notturni, ebbri, di basso elettrico, di drum-machine, casse spezzate, ammiccanti a passi, a plastiche anni Ottanta e Novanta, motivi sintetici, come feticci sonori, a tramare con le insegne al neon dei fast food – quella di Mona Lisa and the Blood Moon, terzo film di Ana Lily Amirpour, in sala a partire da oggi. Film che andrebbe ballato oltre che guardato, al ritmo di un elettro-pop e di un elettro-house, con punte di techno, vibranti in brani come Poison Within di Bottin o 5 Feet di Nick Monaco o soprattutto Atla Ride di Rodion e Le Freq di Ancient Deep che scandisce in modo irresistibile i titoli di coda. Cultura pop; piacere del feticcio in cellulosa; condivisione dell’avventura salubre delle immagini; fiducia nelle immagini e nei personaggi, queste sembrano essere le chiavi di lettura del cinema di Amirpour: una giocosità, una superficialità sfrontata dello sguardo, del gesto registico, che all’improvviso però spalanca profondità inquietanti, scorci di realtà problematici e comunque alla fine, ballando sulla superficie della metafora, non manca di «impegno», di lanciare un messaggio elementare, essenziale, come nelle favole.

NEL PRIMO film, A Girls Walks Home Alone at Night, si trattava dell’ansia di liberazione (dalle stretture del burka) da parte di una ragazza-vampira innamorata, perennemente velata di nero per mimetizzarsi nel contesto dell’integralismo religioso, che si aggirava per le strade chiaroscurali, livide di Bad City, corrispettivo cinematografico di quell’Iran da cui provengono i genitori della regista nata invece in Inghilterra e poi trasferitasi negli Usa. Nulla di più attuale rispetto a quanto sta accadendo in questi giorni in Iran, la protesta delle donne da sempre private di diritti e libertà elementari, che nel cinema di Amirpour viene mostrato come in tralice, dissimulato dalla preminenza dei meccanismi del cinema di genere (il western, l’horror, il cinema fantastico ecc.), da cui, dalla congerie di immagini apparentemente disimpegnate, emerge alla fine un netto, naturale orgoglio di genere.

ECCO, si potrebbe dire sintetizzando al massimo: dal cinema di genere alla fierezza di genere, ma fuori dall’orrenda, isterica, anche opportunistica retorica del Mee Too che inibisce ogni slancio paritario (a proposito si leggano le prime pagine del volume di Roberto De Gaetano, Le immagini dell’amore), come se le donne fossero delle minorate da accudire o delle privilegiate a cui dare ogni precedenza, senza alcun discrimine, a prescindere da tutto, e non invece esseri dotati di personalità e forza proprie, né più né meno che gli uomini. Per Amirpour i personaggi femminili, oltre la loro specificità di genere, si elevano alla generalità, sono in genere esemplari di umanità, sono occasioni per mostrare la complessione e la fierezza degli emarginati (maschi o femmine che siano), degli ultrasensibili, dei cosiddetti diversi, magari afflitti da quelle «devianze» da cui Meloni è così spaventata e che invece sono, mi pare, il sale dell’umano. Mona Lisa Lee è così scopertamente e direi anche orgogliosamente deviata, tanto da essere il motore e il filtro ottico di un film balzano, psichedelico in cui grand’angoli saltuari e macchina a mano, fremente, deformano e stratificano lo spazio.

VIGE la notte come rimbombante negli spazi vuoti; la luna piena, fucsia che risveglia l’indole libertaria della ragazza, il suo istinto lupesco a fiutare i suoi simili, cioè Charlie, il bambino emotivo e creativo che ascolta gli High on Fire e indossa una maglietta dei Suicidal Tendencies e Fuzz, ragazzo strambo, stralunato, con tutta la sua paccottiglia fluorescente, cineserie in celluloide, tappezzerie zebrate a rivestire questa favola pop e nera che chiede di essere presa e goduta per quello che è: nella sua leggerezza e semplicità – non banalità – d’assunti.