Fidia, scultore per eccellenza, padrone di tutte le tecniche, insuperabile nel rappresentare la maestà degli dèi. Nel 167 a.C. il generale romano Lucio Emilio Paolo rimase folgorato dallo Zeus di Olimpia, una delle celeberrime creazioni dell’artista e, a distanza di secoli, personalità di successo quali Ingres e Rodin invitarono i propri allievi ad ammirare la «divina serenità» del maestro greco, cristallizzando così la tradizione del Bello.

Una fama tanto acclarata e duratura quanto basata su una produzione-fantasma: non a caso, si è parlato di Fidia come di uno «scultore orale». Pensiamo a una delle opere simbolo dell’arte fidiaca, la colossale Atena Parthenos in oro e avorio, costata persino più dell’intero Partenone. Opera-icona dalla larga diffusione, ma le successive rielaborazioni in marmo possono solo semplificarla: oggi è impossibile ricreare l’effetto dell’originale, sfavillante nella penombra della cella del tempio.

Testa di Zeus, Frankfurt am Main, Liebieghaus Skulpturensammlung ARTOTHEK

La mostra di Fidia in corso a Roma, Musei Capitolini, Villa Caffarelli (ancora fino al 5 maggio 2024), promossa dagli stessi Musei Capitolini e curata da Claudio Parisi Presicce, Nadia Agnoli, Alessandra Avagliano e Francesca de Tomasi, è dunque un’operazione ambiziosa e non banale. Probabilmente a causa dell’evanescenza degli originali, il primo attore dell’Atene periclea non era infatti mai stato al centro di un progetto espositivo monografico.

L’esposizione è articolata in sei sezioni. Nella prima si affronta la vicenda biografica di Fidia, a partire dal (poco probabile) ritratto in prestito da Copenaghen e dalla famosa e controversa coppetta con la firma eimì Pheidíou, «sono di Fidia». La seconda, «L’età di Fidia», illustra il contesto storico, politico e artistico della pòlis agli inizi del V secolo a.C., quando il giovane protagonista completò l’apprendistato presso lo scultore ateniese Egia e il bronzista argivo Agelada, imparando a scolpire il marmo e a fondere i metalli. Gli inizi della sua carriera sono ripercorsi citando le prime importanti commissioni, come l’Apollo Parnopios, sino alla realizzazione dell’Atena Promachos e dell’Atena Lemnia, sculture grazie alle quali raggiunse il successo.

Si esamina poi l’attività dello scultore nella «città coronata di viole», Atene, dove Fidia seguì la ristrutturazione dell’Acropoli e la grandiosa fabbrica del Partenone, progettandone non solo gli apparati decorativi, ma anche la statua della dea. Un approfondimento è dedicato ai documenti che hanno segnato il revival del Partenone in età moderna come il cosiddetto taccuino Carrey della Biblioteca Nazionale Francese, un quaderno di disegni testimone della decorazione del tempio prima dell’esplosione nel 1687. La grafica si anima poi grazie all’installazione «Fidia e il Partenone», un’esperienza interattiva capace di far rivivere lo spazio fisico: alla ricostruzione in 3D dell’edificio e del paesaggio circostante è stato affiancato uno schermo touch attraverso cui il visitatore può «radiografare» il Partenone, accedendo a tutti gli approfondimenti scientifici.

In «Fidia fuori da Atene» si segue l’artista lontano dalla sua città natale, dalla poco fortunata partecipazione al concorso efesino, dove la sua versione di amazzone ferita non vinse, alla ben più soddisfacente esperienza a Olimpia, con l’esecuzione di una statua di Zeus inclusa nelle sette meraviglie del mondo antico. La quinta sezione indaga l’impatto dell’arte fidiaca e delle sue tecniche, soprattutto quella crisoelefantina, sulle successive generazioni di artisti in Ellade e Magna Grecia attraverso pezzi eccezionali come l’acrolito in marmo pario da Cirò Marina (Reggio Calabria).

Infine, si esplorano le radici della sua fortuna: se ancora nel XII secolo i nomi di Fidia e Prassitele, leggibili sulle basi delle statue dei Dioscuri del Quirinale, erano associati a maghi o indovini, è Petrarca il primo a tentare il collegamento con gli artisti celebrati nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. Fidia si impone allora come termine di paragone assoluto, riecheggiato nelle creazioni di Antonio Canova, il Fidia «italico», o di Bertel Thorvaldsen, il Fidia del Nord.

Nella ricostruzione della personalità dell’artista, specie nel contesto socio-culturale di una Grecia pronta a ornarsi con opere concepite «per durare a lungo», la mostra è pienamente riuscita. Una didattica attenta e rivolta a un pubblico vasto e composito, sostanziata da un catalogo ricco e ben confezionato («L’Erma» di Bretschneider), vince la sfida di presentare un maestro dell’arte classica in modo chiaro e istruttivo. Un’ottima occasione anche per gli studenti: le diverse copie dello scudo dell’Atena Parthenos permettono, ad esempio, un confronto diretto tra linguaggi formali differenti.

Fidia è dunque un po’ meno un fantasma, ma lo spettro che aleggia sulla mostra è un altro. Nessuna sezione, nessun saggio, nessun intervento accenna alla ben nota querelle sulla restituzione dei marmi del Partenone. La presenza in mostra di due frammenti originali del fregio, eccezionalmente in prestito dal Museo dell’Acropoli di Atene, nonché le recentissime recrudescenze sul tema, avrebbero invece più che giustificato una riflessione in merito.

Non si chiede certo all’archeologia di dirimere spinose questioni legali, ma l’«attualizzazione» della materia non può essere demandata alla sola tecnologia, aggirando una questione così cruciale, dallo strascico di oltre due secoli. Chissà cosa avrebbe pensato lo stesso Fidia, al centro nei suoi ultimi anni di un processo tanto infuocato quanto moderno nello svelare lo stretto, inossidabile vincolo tra arte e potere.