Fid Marseille, la ricerca incerta delle immagini
Festival Un’edizione fra il voto francese e la nuova direzione artistica. Una selezione con molti titoli e diversi orientamenti ma la manifestazione deve ancora trovare un equilibrio. Vince il concorso internazionale «Bluish»
Festival Un’edizione fra il voto francese e la nuova direzione artistica. Una selezione con molti titoli e diversi orientamenti ma la manifestazione deve ancora trovare un equilibrio. Vince il concorso internazionale «Bluish»
Alla vigilia del voto francese la scorsa domenica, bastava una passeggiata nelle vie di Marsiglia per capire come sarebbe andata. Tutto ciò che non funzionava, dalle cose ordinarie a quelle importanti aveva una sola risposta: «c’est la faut à Macron» ovvero la colpa è di Macron. L’aeroporto di quella che è la seconda metropoli di Francia ha ceduto un intero terminal al low cost Ryan air? C’est la faut à Macron. Il suddetto terminal non ha servizi adeguati per i passeggeri? C’est la faut à Macron. La strada è chiusa perché c’è una buca? C’est la faut à Macron. E via dicendo nel flusso estivo di turisti svagati, la frenesia pre-olimpica che ha fatto triplicare i costi, i match di rugby con lo stesso effetto. Nell’aria rinfrescata dal mare e dal cielo terso, l’atmosfera del mediterraneo e una folla mai frenetica come nella capitale Parigi, ragazze velatissime di non so quale generazione scivolano nel sole, i maschi seduti al caffè – o dal barbiere – che sembra essere una loro esclusiva più che delle elezioni francesi discutono in arabo davanti ai risultati delle presidenziali iraniane trasmessi in tv. È chiaro che la «macronie» ha perduto del tutto i rapporti – se mai ce ne sono stati – con una parte grandissima della sua cittadinanza, coloro che qui vivono nelle cité e cercano identità in altro ormai da decenni, allontanandosi da quella proposta dalla repubblica francese. «Mia figlia non si capacita che vince la destra estrema» – ci dice un’amica. Lei sembra più determinata: «Resisteremo, lotteremo e spero meglio di voi italiani che con Meloni siete un po’ fiacchi».
HA RAGIONE, ma nell’attesa del 7 luglio l’atmosfera si è fatta più pesante. È in questi giorni strani che si è svolto il Fid, il Festival internazionale del film che ha dovuto anticipare il calendario solitamente in luglio a causa appunto delle Olimpiadi per la prima direzione artistica di Cyril Neyrat, dopo alcuni anni di una gestione collettiva che vedeva lo stesso Neyrat nel ruolo di coordinatore della programmazione. Critico e redattore dei «Cahiers du cinéma», storico e docente di cinema, autore di diverse pubblicazioni Neyrat in questo passaggio ha mantenuto l’esperienza passata con le sezioni competitive e un numero maggiore di titoli rispetto al 2023 – ristabilendo i fuori concorso come la sezione Autres Joyaux. A cui si aggiungono la retrospettiva dedicata Ingrid Caven magnifica presenza nel cinema di R.W. Fassbinder ma anche di Werner Schroeter (La morte di Maria Malibran,1971) o di Daniel Schmid (La Paloma, 1974); l’omaggio alla coppia di registi brasiliani Adirley Queiròs e Joana Pimenta e la corrispondenza Agathe Bonitzer/Sophie Fillières, l’attrice e figlia della regista e attrice scomparsa lo scorso luglio alla fine delle riprese di quello che è diventato il suo ultimo film – proposto in aperura della Quinzaine: Ma vie ma guele.
Difficile mappare una o più possibili tendenze ricorrenti nella selezione, che ormai da tempo aveva lasciato la sua cifra «documentaria» pur sempre ibrida per orientarsi alla finzione, a parte l’idea di un cinema indipendente che prova a sperimentare nuove forme di narrazione rispetto al proprio mezzo, alle immagini, alle parole. Ne è un esempio il film che ha vinto il concorso internazionale, Bluish di Lilith Kraxner e Milena Czernovsky già al Fid col precedente Beatrix (2021), che qui si confrontano con le figure di due giovani donne sui vent’anni. Di loro sappiamo poco ma non è costruire i personaggi attraverso una sequenza di informazioni o di accadimenti che sembra interessare le registe, quanto piuttosto suggerirne le storie attraverso frammenti di quotidiano, dettagli dall’apparenza anche insignificante, nelle ossservazioni fuori campo di altre donne più grandi, una sorta di coro. Un po’ scoperta un po’ racconto di formazione a partire dalla domanda sempre incombente che riguarda la cosiddetta età adulta, nel paesaggio invernale che le circonda la macchina da presa scopre poco a poco il loro mistero, le emozioni, quell’intimità che sfugge dalle superfici.
ANCHE Frieda TV di Léa Lanoë (Gran Premio del concorso francese) è un ritratto: quello di Frieda o Gerda Frieda Janett Gröger, a volte Matthias, che vive a Berlino e che la cineasta, segue attraversando le sue caotiche avventure mentali, fisiche, musicali e linguistiche. Un personaggio fuori controllo Frieda che nele sue piroette con cui ribalta ogni istante rischia di risucchiare il film. Che oppone una resistenza e accetta il rischio rimanendo incerto su questo insidioso crinale.
È dunque il ritratto una possibile tendenza? O la ricerca in esso di un ‘eco del nostro tempo? Tentativo questo che caratterizza La chambre d’ombre di Camilo Restrepo in cui una donna rinchiusa nello spazio di una stanza che potrebbe essere una quinta teatrale o una installazione immagina un museo mentre fuori rimbomba il suono della guerra. E la storia nelle sue parole passa per le immagini che hanno cercato di imprimerla, nella relazione fra illusione e rappresentazione. L’intenzione è abbastanza dichiarata, ma il regista non sembra controllare fino in fondo la sua materia nel senso ricercato perdendosi fra l’accumulo di troppe suggestioni. È ciò che accade anche a Nicolas Pereda. Il suo Lazaro de noche è un gioco tra dentro e fuori la messinscena, fra banalità e meraviglia, che decostruisce i personaggi in costanti variazioni. Narrato come un romance amoroso a tre con momenti di grande tenerezza, inciampa infine nel suo stesso mistero. È un problema di segni, di tracce, di intenzioni?
Si basa invece su un archivio Contretemps, il nuovo «ritratto del Libano di Ghassan Salhab» che monta le sue immagini girate dal 2019 alla fine del 2023. Quattro anni nella città di Beirut, un diario filmato della politica: dalle manifestazioni di rivolta nell’ottobre 2019 al Covid, e poi la devastazione delle esplosioni nel porto di Beirut, lo spegnersi delle proteste fino a Gaza oggi.
L’ARCHIVIO torna nel documentario di Kamal Aljafari A Fidai film, una riflessione sull’immagine dei palestinesi a partire dai loro archivi distrutti dagli israeliani che con questo gesto ne negano ancora una volta l’esistenza. È stato uno dei film che più è piaciuto al pubblico insieme al patrimonio, ovvero i film del passato – sala pienissima per Un anno con tredici lune. Effetto nostalgia? O voglia di sicurezze? Che il pubblico in effetti è sembrato essere un punto critico, poco numeroso per delle prime mondiali in presenza dei registi, forse l’offerta non teneva conto delle cifre reali facendosi concorrenza da sé. Magari è anche a causa dello spostamento di date, che nelle abitudini festivaliere è sempre difficile, o del fatto che i cambiamenti necessitano tempo. E il Fid rispetto al passato è cambiato, e in che senso va è da scoprire. La prima impressione è che film a parte ha perduto quell’energia conviviale e la capacità di molti che lo animavano – e che non ci sono più – di creare relazioni fra le persone, gli ospiti che lì si ritrovavano in modo informale, nella rilassatezza di un festival che faceva sentire accolti. Vedremo nel futuro.
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