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«Fibre, tessuti, telaio, tutto in me scricchiolava»: Rilke, lettere dal Castello di Muzot

«Fibre, tessuti, telaio, tutto in me  scricchiolava»: Rilke, lettere dal Castello di MuzotHugo Simberg, «L’angelo ferito», 1903

Carteggi letterari Scritte dal produttivo esilio, nel luogo in cui compone le «Elegie duinesi» e i «Sonetti a Orfeo», le lettere di Rilke selezionate per l’editore De Piante da Franco Rella: «Noi siamo le api dell’invisibile»

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 10 aprile 2022

L’11 giugno del 1919, «après ces cinq ans de prison allemande», come scrive a un’amica, Rilke lascia la Germania, dove non farà più ritorno. Va in Svizzera per una serie di letture pubbliche, ma anche alla ricerca di un luogo dove completare le elegie iniziate a Duino nel 1912. E lo trova, grazie all’amico Werner Reinhard che affitta per lui il piccolo castello medievale di Muzot, presso Sierre, dove Rilke si trasferisce nel luglio 1921. Là, dopo qualche mese, avviene il miracolo: nel febbraio del 1922, in pochi giorni porta a termine non solo quella che considera la sua principale opera poetica, le dieci Elegie duinesi, ma anche, e inaspettatamente, un altro celebre ciclo, i Sonetti a Orfeo. Entrambe usciranno l’anno dopo e segnano uno dei culmini della poesia del Novecento.

Rilke parla della loro stesura come di un’esplosione, un «uragano», una «tempesta»: «tutto in me, fibre, tessuti, telaio, scricchiolava e si piegava» scrive a Lou Andreas-Salomé. La sua vita gli appare ora come un lungo, tortuoso cammino verso la realizzazione di un «compito» che aveva intuito davanti ai quadri di Cézanne, a Parigi, nel 1907, e che soltanto ora, quindici anni dopo, tra le «vecchie mura» di una «forte, piccola torre» nella Svizzera vallese trova una forma compiuta. «Ora io mi riconosco», scrive sempre a Lou Andreas-Salomé. «Ora sono. Sono».

Feroce l’egoismo
Questo senso di pienezza per il compimento della sua missione artistica attraversa la corrispondenza che Rilke tiene da Muzot: fondamentali per comprendere la poetica del tardo Rilke, queste lettere raccontano anche la sua lotta contro il dolore che gli invade progressivamente il corpo, manifestando la presenza della leucemia che lo porterà alla morte nel 1926. Ora l’editore De Piante ne propone una selezione a cura di Franco Rella con il titolo Noi siamo le api dell’invisibile Lettere da Muzot (pp. 121, e 14,00).

Per Rilke – suggerisce il curatore nella sua suggestiva postfazione – la poesia è un modo per abitare l’esilio, e forse per superarlo, accogliendo e redimendo la caducità di ogni cosa e di ogni dimora nella profondità del proprio sé. Ma ciò richiede – scrive ancora Rella – un «feroce egoismo», un’attenzione esclusiva, un raccoglimento assoluto che rifiuta ogni altro impegno come una distrazione, anche se in gioco c’è il matrimonio della figlia o la nascita di un nipotina, occasioni che Rilke diserta per non essere distolto dalla sua opera.

Lo Château de Muzot è per lui il luogo di una «clausura» a lungo cercata, un luogo di approdo dopo un lungo vagare, un luogo finale: il luogo della morte come telos biografico e poetologico. Qui la sua scrittura trova quel che gli sembra aver sempre cercato: la «definitiva affermazione della vita» che implica un’«affermazione» della morte come «lato della vita rivolto altrove da noi, non illuminato da noi», come sfera di un «invisibile» che è da noi parimenti abitato ed è anche sempre e definitivamente presente. All’idea di un aldilà che svaluta la vita terrena, Rilke contrappone quella di un mondo «aperto» che è più ampio del nostro essere qui e ora, che comprende anche i morti e i posteri, le cose che non conosciamo e quelle che conosciamo, le possibilità che sono state pensate e quelle che non lo sono state, e forse finanche quelle non pensabili.

Questo orfismo laico, che costituisce il fondamento delle Elegie duinesi come dei Sonetti a Orfeo, implica una pietas spietata e – letteralmente – conservatrice verso tutte le manifestazioni del vivente, anche quelle che possono apparire più ingiuste. Come san Giuliano l’Ospitaliere che abbraccia il lebbroso, ma non può guarirlo e forse neanche vorrebbe, il poeta accoglie nel suo canto il bene e il male del mondo senza alcun desiderio di «migliorare la situazione di alcuno», senza schierarsi né per il ricco né per il povero, perché povertà e ricchezza, come ogni altra cosa che esiste, gli appaiono come momenti della molteplicità del mondo e parte del progetto di un «dio della completezza». Perciò la poesia può celebrare ogni cosa, e così sottrarla alla sua caducità.

Tutti i versi di Rilke manifestano una ribellione instancabile contro l’inevitabile dissoluzione cui tutto è destinato. È il problema che tormenta e vivifica la sua scrittura. La parola poetica diventa lo strumento per esorcizzare l’angoscia della perdita che svilisce il godimento delle cose del mondo. «Il nostro compito è di imprimerci questa precaria caduca terra così profondamente, così dolorosamente e appassionatamente, che la sua essenza in noi risorga “invisibile”», scrive Rilke al suo traduttore polacco Witold von Hulewicz in una lettera celebre e fondamentale per comprendere la sua poetica tarda.

«Con una parte del nostro essere partecipiamo dell’invisibile, e possiamo aumentare il nostro possesso di invisibilità durante la nostra dimora qui», gli dice ancora. In questa economia metafisica anche il dolore può diventare un possesso invisibile e acquisire così un senso poetico.

Un io in fiamme
Il testo che chiude la selezione di Rella non è una lettera bensì l’ultima annotazione del poeta morente, chiusa da alcuni versi che fanno parlare il corpo gettato nel «rogo» del dolore: «Sono ancora io, io che brucio / ormai qui inconoscibile?», si chiede l’io lirico: un «io in fiamme», che vive l’esperienza epifanica di un trasporto del vivente oltre se stesso. Forse la vera poesia è questo straniamento radicale, quasi impensabile, della vita che riesce a guardarsi da un fuori di sé dove non è più catturabile da alcuna conoscenza.

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