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Fiat, il gran rifiuto di Boldrini a Marchionne

Fiat, il gran rifiuto di Boldrini a MarchionneLa presidente della Camera

Diritti Lettera aperta per spiegare il "no" alla visita ad Atessa: "Vecche ricette fallimentari, ne servono di nuove"

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 5 luglio 2013

 

Il “no” della terza carica dello Stato all’invito di Sergio Marchionne non è certo addolcito dalla formula di rito degli “impegni istituzionali già in agenda”. Anzi, nella lettera con cui Laura Boldrini fa sapere che non andrà a visitare lo stabilimento Fiat di Atessa in Val di Sangro, la presidente della Camera scrive che in questi ultimi anni le politiche del Lingotto – e più in generale di una buona parte del sistema industriale italiano – sono state deleterie. Non soltanto per i lavoratori. Anche per l’apparato produttivo della penisola, sempre più arrancante.

Nella risposta all’invito del numero uno della Fiat, c’è un passaggio che sembra preso dalle tante denunce fatte da vent’anni ad oggi dalla Fiom e a seguire dall’intera Cgil. “Lei concorderà – segnala Boldrini a Marchionne – che le vecchie ricette hanno fallito e che ne servono di nuove. Affinché il nostro Paese possa tornare competitivo, è necessario percorrere la via della ricerca, della cultura e dell’innovazione, tanto dei prodotti quanto dei processi. Una via che non è affatto in contraddizione con il dialogo sociale e con costruttive relazioni industriali: non sarà certo nella gara al ribasso sui diritti e sul costo del lavoro che potremo avviare la ripresa”.

Per l’ad del Lingotto, che aveva invitato ad Atessa la presidente della Camera dopo che alla manifestazione Fiom di venerdì scorso le porte di Montecitorio erano state aperte ad una delegazione sindacale guidata da Maurizio Landini, il diniego di Laura Boldrini è il secondo smacco in due giorni. Segue la decisione della Consulta di ritenere illegittima l’esclusione dagli stabilimenti Fiat dei sindacati (Fiom e non solo) che non firmano i contratti. Né può essere di consolazione a Marchionne il fatto di non essere l’unico manager a finire dietro la lavagna. La presidente della Camera infatti rimarca: “Emerge la portata del processo di deindustrializzazione che colpisce aree sempre più vaste del nostro Paese. Per ogni fabbrica che chiude e per ogni impresa che trasferisce la produzione all’estero, centinaia di famiglie precipitano nel disagio sociale, e il nostro sistema economico diventa più povero e più debole”.

Mentre da Torino non arrivano commenti al “no” di Boldrini, è la sentenza della corte Costituzionale a provocare nuove reazioni. Susanna Camusso ne parla all’assemblea delle delegate Cgil e osserva: “’Dobbiamo festeggiare per l’accordo firmato unitariamente a Cisl e Uil sulla rappresentanza, e perché la sentenza di ieri della Consulta dice che nessuno potrà mai cacciare un sindacato da un’azienda”. Anche Raffaele Bonanni, che pure attacca la Fiom (“questa vicenda nasce perché la Fiom non rispetta la volontà della maggioranza dei lavoratori”), si dice convinto della portata risolutiva dell’accordo interconfederale di maggio: “Il problema è risolvibile a monte – osserva il segretario generale Cisl – nel senso che abbiamo fatto un accordo un mese e mezzo fa sulla rappresentanza, e quella regola deve valere”. Di avviso opposto l’Usb: “La sentenza rende inservibile l’accordo sulla rappresentanza, e rende improcrastinabile la riassunzione del parlamento delle sue prerogative legislative anche sulle materie che riguardano la democrazia nei luoghi di lavoro”. Il sindacato di base insiste, auspicando che le motivazioni della Consulta, che arriveranno a giorni, “prevedano anche la necessità di una legge che finalmente regoli la rappresentanza e la rappresentatività”. Su questo aspetto c’è una curiosa convergenza con il Lingotto, che subito ha fatto sapere: “Piena fiducia nel legislatore, perché definisca un criterio di rappresentatività più solido e dia certezza di applicazione degli accordi”. Il motivo c’è: nel vuoto che potrebbe crearsi per l’incostituzionalità del comma dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, anche alle aziende conviene una rapida legge che regoli la materia. Ma esaminando l’accordo interconfederale, il giuslavorista Umberto Romagnoli avverte: “Per ora si tratta di un semilavorato. Soltanto a rodaggio avvenuto del modello di comportamento prefigurato dal protocollo, si potrà condividere l’opinione che esso contiene validi spunti per ideare una cornice legislativa capace di rivitalizzare un sistema contrattuale tenuto insieme, finora, da poco più che spago e chiodi”.

 

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