Expodemic succede a Roma, a portrait con cui l’anno scorso al Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale era stato inaugurato il Festival delle Accademie e degli Istituti di Cultura stranieri dell’Urbe. Giacché l’esposizione attuale, curata nella stessa sede da Lorenzo Benedetti (con Francesca Campana) e aperta fino 25 agosto, prende le mosse dalla valorizzazione dell’attività di Giuseppe Ghezzi (1634-1721), pittore, restauratore, copista e giurista, è da questa figura che è il caso di partire. Sebbene Ghezzi nasca a Comunanza nelle Marche, si stabilisce ben presto a Roma, dove nel 1674 è già membro dell’Accademia di San Luca, poi — ed è il 1676 — della Compagnia dei Virtuosi al Pantheon e, infine, dell’Arcadia, nell’anno stesso della sua istituzione, cioè il 1690. La carica più importante, tuttavia, doveva ricoprirla nella Confraternita dei Marchigiani, alla quale fu ammesso nel 1676.

Nel Seicento Roma, già centro della Cristianità, era oramai anche il crocevia della vita artistica europea. E in questo passaggio da un universalismo di natura religiosa a uno laico, non faceva che assecondare la propria secolare vocazione ecumenica. Per i molti artisti tedeschi, francesi, inglesi, danesi, membri d’accademie, vincitori di borse o premi, che ne andavano gremendo le strade, i caffè e le locande (la Martorelli di Ariccia, oggi Museo del Grand Tour), Roma era infatti la custode di una tradizione universale, giacché i resti dell’Antichità e i capolavori del Rinascimento, che vi si potevano ammirare, costituivano il retaggio non di una singola città o di una nazione, bensì dell’umanità tutta.

Tornando a Ghezzi, egli comprese che tale patrimonio non poteva appartenere soltanto ai principi e ai signori che lo custodivano nelle sale dei loro palazzi e, mosso da questa convinzione, su incarico della Confraternita che, per la ricorrenza della Traslazione della Santa Casa di Loreto, ogni 10 dicembre era solita organizzare dei festeggiamenti, allestì nel Chiostro di San Salvatore in Lauro quelle prime esposizioni che permisero a un numero assai più vasto di persone d’abbeverarsi al fons vivium: «Il tema della mostra – scrive Benedetti – nasce da Ghezzi proprio per una nuova visione della società dove la condivisione dei capolavori fosse un’occasione per accrescere da una parte il valore accademico degli artisti, dall’altro di diffondere nella società un valore culturale universale». E se il Palazzo delle Esposizioni, la cui costruzione risale al 1883, rappresentò per Roma «il primo spazio espositivo», dopo la morte di Ghezzi, «dedicato alle mostre temporanee», furono i membri e i borsisti dei vari istituti stranieri a garantire la continuità di quello spirito ecumenico che aveva per secoli caratterizzato lo spirito dell’Urbe.

Passeggiando per le sale, vediamo una selezione di opere di alcuni fra i più interessanti artisti che negli ultimi anni sono stati ospiti di queste istituzioni. Così nella prima, accanto al manoscritto originale di Ghezzi intitolato «Quadri delle Case de Principi in Roma», utilissimo zibaldone d’appunti raccolti dal figlio, possiamo osservare i lavori di Kamrooz Aram, Fatma Bucak e Kapwani Kiwanga, che variamente interpretano l’idea dello spazio di un allestimento. Vi sono qui, tra le altre cose, i grandi festoni di fiori di Kiwanga, elaborati a partire dalle decorazioni che hanno accompagnato le cerimonie di indipendenza di molti paesi africani e che ricordano un po’ le nostre nature morte seicentesche.

Un’altra sala, la seconda, è dedicata invece alla scrittura nelle sue varie forme: ecco Chloé Quenum, della quale vediamo due istallazioni, Elise e Irene, e Hamedine Kane, il cui lavoro si concentra «sull’esame di testi, copertine di libri e traduzioni di scritti all’interno della diaspora africana». Sottile come una grafia rupestre è la composizione di Fatma Bucak, A tree, realizzata impiegando come tarsie il materiale raccolto dalla terra annerita dagli incendi: un’opera notevole per l’abilità con la quale l’artista costringe gli scarti nello splendore stilizzato e assorto del mosaico.

La suggestione del rimpiego di materiali ci porta all’ultima sala che a questo tema è dedicata. Vi troviamo un’interessante installazione con piante colte a Villa Massimo, Seasonal Wall Dressing di Susanne Brorson, insieme ai lavori di Zachary Fabri, Sarina Scheidegger, Pedro Luis Cembranos e Alix Boillot.

Ma prima d’uscire l’occhio indugia su A Lizard in a Woman’s Skin di Tura Oliveira e, ancor più, sulle stravaganti creazioni di Jacopo Belloni, dove le reminiscenze rinascimentali (Mirre e Dafni della pittura quattro-cinquecentesca), con un po’ della bizzarria surreale di una Leonor Fini, finiscono col riportarci alla mente quella tradizione che ha contribuito a fare di Roma la fonte d’ispirazione per artisti di ogni paese. Come fu ai tempi di Ghezzi e come ci auguriamo sarà ancora e ancora.