Ci sono le statue di Colombo in varie città statunitensi, quelle dei generali sudisti a Richmond, naturalmente i quattro presidenti di pietra a Mount Rushmore. Una lunga indagine sui monumenti negli Stati Uniti e la memoria controversa che si portano dietro, il nuovo film di Valerio Ciriaci, Stonebreakers, arriva in anteprima mondiale al Festival dei Popoli 2022. Dopo If Only I Were That Warrior (2015), che parlava della memoria coloniale in Italia e delle sue ramificazioni (anche negli USA), e Mister Wonderland (2019) – di cui, lo si dice per onestà verso i lettori, è autore anche chi scrive – su Sylvester Z. Poli, un italoamericano proprietario di teatri e pioniere del cinema, Ciriaci e Isaak Liptzin (produttore e direttore della fotografia) continuano con questo terzo film il loro viaggio nella memoria del variegato mondo italoamericano, allargando lo sguardo al rapporto di molte altre comunità USA con la memoria di pietra. Il film ci porta infatti in vari luoghi e momenti simbolici dello scontro intorno ai monumenti, come Philadelphia e New Haven (Connecticut), dove la rimozione della statua di Colombo ha scatenato conflitti tra attivisti indigeni e neri con la vecchia comunità italoamericana.

Il film ha una struttura ciclica, partiamo da Washington DC il 4 di luglio e lì torniamo, sempre il 4 di luglio, per assistere alle celebrazioni per l’indipendenza. Ma dal 2020 al 2021 è cambiato apparentemente tutto, e i discorsi di Trump e Biden non potrebbero essere più diversi. È un paese diviso, a partire dal passato che raccontano, e il rapporto agonistico con le statue è parte di questa storia.

Uno dei (tanti) meriti di questo film è quello di catturare un momento, un’estate che potrebbe aver cambiato il modo di intendere il nostro rapporto col passato. Nel 2020 Ciriaci e Liptzin si muovono rapidamente in vari posti degli USA, riuscendo a filmare mentre le proteste avvenivano, e a chiedere a chi le animava motivazioni, obiettivi, sogni. E di riuscire a farlo non solo uno specifico evento (che sia una protesta intorno a una statua o la celebrazione del quattro luglio) ma anche riportando tutti i dettagli che ci sono intorno, restituendoci un quadro completo di quello che accade.

Grazie a questo occhio partecipe Ciriaci riesce a condensare storie in pochissimi secondi. In questo film, lo si può osservare per esempio in una scena in Virginia, dove la camera rimane fissa sulla targa che ricorda l’arrivo dei primi africani schiavi nello stato nell’agosto del 1619 (la memoria della schiavitù) mentre appena dietro la targa scorre una coppia di bianchi statunitensi con passeggino (il presente che scorre, apparentemente indifferente) e al largo, in mare, si vede una nave cargo, forse una petroliera (il capitalismo della logistica). Sempre con camera fissa, mentre i due bianchi spariscono, vediamo Earl Lewis Jr, un attivista locale nero, con maglietta di Black Lives Matter che va a fotografare la targa, intrecciando lotte di oggi con la memoria del passato. È questo, in fondo, il tema principale dell’intero film, che Ciriaci riesce a rendere brillantemente in questi pochi secondi.

Ma oltre a cogliere un momento, il film lo storicizza già, mettendolo in prospettiva storica (grazie a pochissimo e oculato materiale d’archivio e intervista a storici), e facendo anche vedere come, in un solo anno, le sensibilità in un paese volatile come gli USA siano cambiate. Su questo è la storia stessa della comunità italoamericana, che passa da essere ostracizzata a essere pienamente inserita nei gangli del potere, ad essere da esempio.

Qui Ciriaci dimostra come la memoria di un gruppo non prescindere dal problematizzare il rapporto con il presente e con altre comunità. Su questo è fondamentale la breve intervista allo storico e folklorista Joseph Sciorra, che spiega chiaramente come la memoria dei lavoratori italoamericani sia stata marginalizzata in favore di quella di Colombo e dei ricchi esponenti della comunità (quei «prominenti» che spesso hanno voluto e finanziato le statue dedicate al navigatore genovese). E ancora più fondamentale è andare al confine con il Messico dove si costruire la memoria del futuro con piccoli memoriali dedicati ai migranti.

Da un punto di vista registico questo è il film più maturo di Ciriaci, con un’immersione totale negli USA (gli altri avevano ampie parti in Italia), nei suoi paesaggi, con la capacità di renderli vivi, e correlato di immagini bellissime, come la carrellata di statue vuote a Richmond, che rendono davvero l’idea di come qualcosa sia cambiato.

Ciò che colpisce in questo lavoro, ma anche di If Only I were That Warrior, è la capacità di Ciriaci di avere rispetto per i soggetti che filma, e di porsi domande più che dare risposte preimpostate. Se sicuramente Ciriaci sta con i manifestanti (anche fisicamente, la camera sta dentro le proteste, anche mentre la polizia carica), senza dubbio le lacrime dell’attivista italoamericano che difende la statua di Colombo a Syracuse sono vere e trattate con massimo rispetto. Non è un caso che l’ultima parola del film sia «dubbi». Non ci sono dubbi invece sul fatto che questo sia un grande film da vedere, discutere, insegnare.