Genova 2001 e quel che accadde durante il G8. Cosa può fare il cinema perché la memoria collettiva non resti abbandonata e rimossa, perché il terreno della comprensione degli eventi sia costantemente lavorato, innaffiato? Che cosa può fare per provare a lenire la mente e il cuore di chi era lì e ha vissuto quello che ha vissuto? Per capire e far capire come in quei giorni la storia del Paese e del pianeta siano state atrocemente deviate…

Vedendo Se fate i bravi – Genova 2001 – Il sogno e la violenza di Stefano Collizzolli Daniele Gaglianone, da un’idea di Fabio Geda – ineludibile nei Doc Highlights di questo fieramente politico 63° Festival dei Popoli, a Firenze con la guida di Alessandro Stellino – si comprende che è possibile aprire uno spazio franco di ascolto: rarefatto e vigile, emotivamente ospitale e intellettualmente inoppugnabile, una stanza interiore senza vincoli di tempo o pressioni, dove il racconto, reciso e ingoiato nel buio di sé, possa dirsi. Se pure soltanto per una irripetibile volta.

È così che tra stralci d’archivio – per strada con gli zaini e i vestiti leggeri di quell’estate di inizio secolo, energia e silenzi e tintinnii disturbanti su una rete metallica (il suono è di Niccolò Bosio), fuoricampo come scenari dal finestrino del treno di un viaggio verso Genova e di uno da, che saranno geneticamente estranei – in tutto questo si srotolano il racconto frontale di Evandro Fornasier, autore delle musiche – a Genova con la ragazza e col suo gruppo di amici – e quello di Stefano Collizzolli, uno dei registi, in voice over, anche se a un certo punto lo vediamo, ragazzo, in un video che non si sarebbe sentito di riguardare per vent’anni.

I due allora non si conoscono: in gruppi diversi, ciascuno cerca il proprio posto sulla mappa della città, tra i rami della manifestazione, per quelle strade i cui nomi saranno ripetuti all’infinito dai media del mondo e nelle 180 udienze del processo. Pure, senza saperlo, sono a poche decine di metri, e questo basta a far sì che i loro destini divergano, che l’uno sia tra i «sommersi», l’altro tra i «salvati».

Ecco, pur non potendo ricomporre i frammenti di questa storia traumatizzata e violata, visitata solo da schegge di flashback, il primo passo è tornare a Genova oggi, davanti al suo mare che, a detta di chi narra, sembrava nemmeno ci fosse.

Poi ci sono i racconti, così densi duri e profondi che non possono detti qui, che vanno ascoltati in tutto il loro dispiegarsi – il film è impresso sul volto di Fornasier, col suo tono fermo e dolce, col suo deglutire, con le lacrime che sfuggono in una testimonianza che, a differenza dei film più prossimi nel tempo agli eventi – come Carlo Giuliani, ragazzo di Francesca Comencini o il titanico Diaz di Daniele Vicari – tutto investe sulla riflessione dolente, eppure lucida tersa possibile. Quello che sento è invece che ci sono frasi, slogan contro le immani disuguaglianze prodotte dal capitalismo globale, interventi come quello di Alessandra Ballerini, avvocata allora a sostegno del Genova Social Forum (ma anche un lungo confronto col giudice Sabella in merito all’omesso controllo delle forze di polizia a lui sottoposte), che vanno trascritte e allora lo faccio su queste pagine perché producano solchi e si propaghino.

«Eravamo convinti che bastasse organizzarci e prendere la parola per cambiare il mondo… Voi 8 noi sei miliardi… C’era una gioia indicibile… come un sogno rumoroso… Non eravamo un gruppo di agguerriti attivisti… Noi a questa ingenuità ci tenevamo un casino».
Poi, dopo la prima shockante irruzione della violenza delle tute nere in via Tolemaide – dove si trova Evandro – dopo la visione dei corpi insanguinati, dopo la notizia dell’assassinio di un ragazzo, non ancora identificato, compiuto da un agente di polizia…

«Si è trattato di un precipitare dentro… Non poterci dire che eravamo disperati… E ora ammazzateci tutti … Non è normale che in questo Paese si torni a sparare sulle piazze … Era una guerra che alcuni in alto hanno creato ad arte …… Non capivo perché il mio Stato mi voleva ammazzare…».

«Parlo di un corpo sequestrato e totale oggetto nelle mani di qualcun altro». Queste ultime dal racconto di Evandro su quanto da lui subito a Bolzaneto. Riporta come in uno scambio tra due poliziotti nei confronti dei manifestanti catturati si auspichino i metodi di Benito e i forni crematori.

E in questa totale presa di coscienza, giunge geniale nell’incipit lo sguardo di chi oggi ha vent’anni e dialoga con gli autori dopo aver visto una parte del film. «Genova ci ha tolto la parola».

Fornasier e tutto il gruppo se la sono ripresa. Chi non spera l’insperabile, non lo troverà, è la citazione da Eraclito. In questo finale di 2022, Se fate i bravi ci invita ad attraversare il buio, perché le finestre sul possibile non sono murate. Sta a noi capirlo e spalancarle.

Festival dei popoli: il concorso italiano
La prima immagine è uno stanzone smisurato in una penombra che le luci dei lampadari non riescono a scaldare: asettico, forse beckettianamente destinato a rimanere deserto, oppure in attesa di un rito inesorabile. Lo si vede in diagonale, con le sedie e relativi banchetti disposti per le prove preselettive, ciascuna – è l’autunno 2020 – opportunamente distanziata dall’altra, a disegnare le geometrie del limbo in cui, dopo lo stop causa pandemia, con buona pace dello Stato italiano, gravita la popolazione dei concorsi. E basti dire che qui parliamo di sanità pubblica.

Ecco, tornando al 2018, si riceve lo schiaffo della visione della folla immane che preme ai cancelli prima di entrare nella suddetta stanza. Una volta 15mila per 120 posti, oppure 7mila per 100 posti ma gli iscritti erano 12mila…Ci sono anche concorsi per un solo posto.
Poi, di notte, una luce giallastra: l’autista lava i finestrini del pullman che sta per lasciare Cava de’ Tirreni, Salerno, per dirigersi al nord, la sede di quasi tutti i concorsi. Quando lo spazzolone scivola via togliendo gli ultimi residui di sapone, si legge: «La disoccupazione nel sud Italia è tra le più alte in Europa (uno su due). Anche chi un impiego ce l’ha è spesso sottopagato… Ancora oggi in tanti sono costretti a emigrare …».

Muove da qui, Il posto di Mattia Colombo Gianluca Matarrese, nel Concorso Italiano dei Popoli, e in dialogo sotterraneo con Se fate i bravi, a darci l’opportunità di leggere lo stato delle cose in Italia.

Un viluppo le cui radici sono da ricercarsi negli attacchi al nostro Sistema sanitario nazionale (perpetrati già a ridosso della creazione nel ‘78); nei tagli ai suoi fondi, falcidiati negli ultimi dieci anni – mentre si preparano le decurtazioni 2023 – nelle lacrime di coccodrillo e nel deflagrare dello stato della sanità, in particolare nelle regioni del sud, con la pandemia. Unendo i punti di tutto questo e senza tornare alle infinite propaggini della questione meridionale, su quel pullman sentirai operatrici e operatori sanitari che parlano di come in pandemia siano stati chiamati a tappare i buchi e solo con contratti da rinnovare col contagocce. E mentre la regia segue il punto di vista di un infermiere che ha messo in piedi una agenzia che fornisce il bus diretto ai luoghi delle prove – siamo all’autogrill all’alba, quando la tensione si condensa nel vapore del caffè, siamo nel tragitto, siamo nello stanzone nel momento del test, mentre alle madri è consentito di allontanarsi per allattare, mentre un suono ossessivo scandisce i secondi su giganteschi kafkiani orologi.

In tutto questo, pur vicina a Raffaele Di Siano (l’imprenditore), e a Giuseppe Senatore (l’autista), la regia è corale, ma accanto al singolo sentire che risuona non detto: Tu non hai voce, ti senti un numero…

E arrivano sì, gli sforzi enormi dei singoli, delle famiglie, ma giunge soprattutto la percezione di uno «Stato di cose» tutto sbagliato, e insieme la caduta, nell’ultimo trentennio, del grado di coscienza, della capacità di opporsi a tutto questo. Facciamo i bravi, danniamoci per «il posto fisso» (The Steady Job il titolo inglese). Oppure «scetiamoci», svegliamoci adesso.