L’Italia ha i Taviani, l’America i Coen e le Wachowski. Il Belgio è tornato cinema internazionale con i registi-sceneggiatori-produttori Dardenne, Jean-Pierre, 71 anni, e Luc, 68. Un capolavoro ogni 3 anni, dal 1996 a oggi. Ogni volta, trionfo a Cannes o nei media. Per oltre 30 anni un cinema straordinario, nato da una minuziosa, paziente pratica artigiana e da un’ostinata, silenziosa coerenza civile. Cinema a quattro mani, o a doppio sguardo: frutto di regia unica moltiplicata per due, laboratorio gemello di due fratelli indivisibili, due facce intelligenti e due cuori pensosi, che con autoironia segnalano di non essere gli unici frères belgi di fama planetaria: «Siamo in concorrenza con la coppia comica dei Taloche, il trio Borlée dei 4×400 e i due Saive, campioni di ping-pong ». «In patria, ci chiamano les frères, epiteto familiare e rispettoso, che rende superfluo il nostro cognome», precisa Jean-Pierre, mentre Luc insiste sulle adiacenze identitarie : «Ormai mi salutano con ‘Buongiorno, frère Dardenne’. Frère è divenuto nome proprio, senza più distinguo».

Si respira subito aria di famiglia, in ogni incontro con i due registi, cui la Cinémathèque Française de Paris ha dedicato 8 anni fa una personale completa, in parte riproposta adesso a Firenze, al 63° Festival dei Popoli (5-13 novembre), con in più la prima di Tori et Lokita (Prix du 75ème al Festival di Cannes) distribuito a fine novembre da Lucky Red e una master class il 12 al Cinema La Compagnia. Nella personale fiorentina, tra i primi documentari anni 70-80 e i film da loro prodotti (da Ken Loach a Costa-Gavras, a Xavier Beauvois), sfolgorano le fiction più celebrate: La promesse (1996), rivolta d’un figlio contro il padre, responsabile d’una ‘morte bianca’, Rosetta (1999, Palme d’or), con l’ossessiva, impietosa cinepresa a spalla sempre addosso alla ragazzina in fuga dalla miseria, fino allo straziante suicidio mancato per le bombole senza più gas (i poveri non possono nemmeno permettersi il lusso d’uccidersi), e ancora Le Fils (2002), altro choc d’umanità (un padre che assume in prova il ragazzo che gli ha ucciso il bambino), L’Enfant (2005, 2a Palme d’or) sul figlio che diventa merce di sopravvivenza d’una giovane coppia, fino a Le Silence de Lorna (2008), Le Gamin au vélo (2011), Deux jours, une nuit (2014, con la Sandra di Marion Cotillard che potrebbe essere Rosetta 15 anni dopo), La Fille inconnue (2016), Le Jeune Ahmed (2019).

Osservava Giuseppe Tornatore (da poco premiato al Lucca Film Festival) che, nel cinema, più si è capaci di scavare e rivelare il ‘particulare’, più si diventa universali: un paesino di Sicilia, ben ascoltato, parla a tutto il mondo. Lo stesso principio nutre, oltre che il cinema dei Dardenne, il volume di Luc Sur l’affaire humaine, edito da Seuil 10 anni fa: «La nostra Bagheria è stata Seraing, in Wallonia – conferma l’autore –, plumbea periferia belga, 50 chilometri attorno a Liegi, senza sole né effervescenze del Sud, ma forse con la stessa malinconia di separatezza e d’esilio». «È qui che siamo cresciuti – interviene il fratello –. Anche il nostro cinema è nato qui, s’è radicato in questa regione d’infanzia. Ecco perché vogliamo filmare sempre ‘il qui’, l’ici. È di questo che vogliamo parlare: di Seraing, del nostro passato, dei paesaggi di quegli anni. Noi siamo quei luoghi, quell’epoca. Ogni nostro prossimo film sarà ancora ici, a Seraing».

Una resurrezione perpetua dello stesso luogo, della stessa storia, dello stesso figlio?
Ma niente serial (precisa Luc): un nuovo film rappresenta una scommessa nuova. Con i personaggi, con la storia, con il cinema. Ci facciamo sempre un obbligo che gli interpreti, esordienti o già esperti, trovino per i loro personaggi attitudini, gesti, intonazioni vergini, indipendenti da qualsiasi lezione, da qualsiasi modello. Ogni volta una prima volta. La sfida riguarda pure noi due. Ogni sequenza è per noi una prova sportiva: riusceremo mai a farne qualcosa di vivo?

È come tentare un nuovo record (rincalza Jean-Pierre), ricondurre l’agonismo a una ritrovata primordialità: nella ripetizione di gesti, misure, tempi ormai registrati e maturati, conquistare l’attimo d’un strappo ulteriore, regalarsi una sorpresa originaria.
Registi come trapezisti, siete soliti ripetere.

Il film che si gira è sempre suspense da un ciak all’altro, è fiato sospeso, una ginnastica emotiva che cadenza le riprese (conferma Jean-Pierre) . La sequenza eletta risulta dalla stratificazione di prove infinite, è il fiore improvviso dell’ennesimo ciak: una media di cinquanta-ottanta in Deux jours, une nuit. Marion Cotillard ne è uscita spossata (sorride Luc): 53 giorni per le riprese, ma dopo un mese e mezzo di prove con noi e gli altri interpreti. Sono tour de force inconcepibili per gli attuali sistemi di produzione: noi ce li possiamo permettere perché da sempre siamo i produttori di noi stessi.

Figli che tornano, ci interrogano, si riproducono e ci interrogano di nuovo, nel cinema dei Dardenne: e i Dardenne che figli sono stati?
Siamo figli di Lucien e Marie-Josée Dardenne (risponde Luc), sempre vissuti a Engis, la cintura metropolitana più inquinata d’Europa. Negli anni Trenta tre persone vi son morte intossicate. Sartre in Critique de la raison dialectique l’addita a emblema delle contraddizioni del capitalismo.

Come siete divenuti fratelli di cinema?
È successo dopo i nostri studi – io in arte drammatica, Luc in filosofia, dal ’74 al ’77 –, quando abbiamo cominciato a girare video militanti e di pronto intervento nelle città operaie, autofinanziati con guadagni occasionali. Fin da allora, la nostra ambizione è stata di combinare asperità sociale e maestà del cinema, due linee-guida che ci han sempre appassionato.

C’è chi vede nella vostra dualità una garanzia produttiva, contro imprevisti o infortuni. Del tipo: se uno si ammala, può continuare l’altro.
Non è così (corregge Luc): tra noi non c’è solidarietà di staffetta, ma una complementarità che scatta quando ci ritroviamo insieme al lavoro. Per il resto, le nostre esistenze rimangono ben distinte, se si esclude che siamo tifosi della stessa squadra di calcio, lo Standard di Liegi. Ma viviamo in due città diverse (conclude Jean-Pierre): io a Bruxelles, Luc a Liegi. Nella fase delle prove e poi delle riprese siamo però inseparabili. Lo sguardo che uno ha sul film non potrebbe esistere senza lo sguardo dell’altro.

Prima del cinema è venuto il teatro.
Sì, con il regista e poeta engagé Armand Gatti, al tempo degli studi d’arte drammatica di Jean-Pierre a Bruxelles. Un incontro fondamentale, l’inizio della nostra collaborazione: prima assistenti nelle messiscene di La Colonne Durutti e L’Arche d’Adelin, poi nell’81 nel film Nous étions tous des noms d’arbres. I primi passi verso una vita di cinema a due, cioè di terrore.

Terrore?
Sì, quando ci siamo resi conto, 26 anni fa con La promesse, di essere divenuti cineasti, siamo stati presi dal panico. Attenzione, ci siamo detti, il piacere è finito: da adesso è cinema. Fino a quel momento, ci eravamo divertiti tra teatro filmato e documentari d’impegno. Il successo di La promesse è stato anche la nostra condanna: d’ora in poi film d’autore, e guai a sbagliare. Il set sarebbe divenuto un obbligo, con paura annessa.

Come avete recuperato il piacere, ‘costretti’ a un destino di cineasti, per di più di successo e, subito, di culto?
La soluzione è venuta da sé (spiega Jean-Pierre): rimanere in famiglia, sui luoghi conosciuti. Lavorare con gli amici. Non aver l’impressione d’aver cambiato vita, di dover lavorare. Questo ha portato anche a scelte di stile, a rafforzare un metodo, poi letto dai critici come un’estetica: dialoghi all’essenziale, più spazio al caso, lasciando entrare i rumori della città, senza cancellarli ma parlandoci sopra, alzando il tono di voce, quando irrompono inattesi. Insomma, un cinema che non confezioni esseri umani ma che aiuti a farli esistere come sono, restituendo loro una vita che sta svanendo in ombra.