Ferrero invade la Tuscia e sconvolge la terra delle nocciole
Agricoltura La multinazionale sta imponendo la monocoltura nel Lazio, in Umbria e Toscana. Pagano bene, ma non tutti i contadini si arrendono alla logica del mercato
Agricoltura La multinazionale sta imponendo la monocoltura nel Lazio, in Umbria e Toscana. Pagano bene, ma non tutti i contadini si arrendono alla logica del mercato
E’ primo mattino nella campagna orvietana quando gli agricoltori arrivano al mercato a preparare i banchi per la vendita. Nell’aria calma, i movimenti lenti dei preparativi vengono raggiunti dai primi raggi di sole. Nel campo convertito a piazza c’è chi monta un gazebo, chi sposta i tavoli di legno formando la via principale del mercato contadino, appuntamento mensile nell’azienda agricola Janas, nell’altopiano dell’Alfina. Uno striscione con la scritta Stop Pesticidi e No monocolture campeggia all’entrata del mercato, sistemato dal gruppo Comunità rurale diffusa (Crd). Contestano l’avanzata dei noccioleti nella zona: «Non è solo il fatto che alcuni contadini stiano passando ai noccioleti – dice Francesco Bifulco, mentre prepara il suo stand – ma ci sono le grandi cooperative e latifondisti che vengono da fuori regione e fanno pressione ai piccoli produttori per comprare le terre».
A meno di dieci chilometri di distanza da qui sono stati piantati più di duecento ettari di noccioleti. Si tratta di uno dei molti campi sorti dal 2018, da quando la Ferrero ha lanciato il progetto Nocciola Italia, prendendo accordi con diverse aziende e coltivatori per espandere la monocoltura corilicola nel Lazio, Umbria e Toscana. Il piano prevede di aggiungere 20 mila ettari a coltivazione esclusiva della nocciola agli oltre 70 mila ettari già presenti in Italia, di cui 45 mila nella Tuscia viterbese.
PER I CONTADINI LOCALI L’INTERESSE della Ferrero per le nocciole significa un reddito garantito visto l’impegno dell’azienda piemontese ad acquistare almeno il 75% del raccolto. Questo fattore ha attratto anche le grandi cooperative: associazioni come Assofrutti, Confagricoltura, ProAgri, Coldiretti e diversi investitori di Caprarola, noto centro di produzione delle nocciole, hanno infatti appoggiato il progetto Ferrero. Tuttavia, diversi gruppi locali composti da coltivatori e consumatori, come la Comunità rurale diffusa e il comitato Quattro strade (cQs), si sono opposti al progetto, definendolo un’invasione e criticandone le modalità di sviluppo.
FRANCESCO ANNARUMI, AGRICOLTORE del Crd, al mercato siede dietro il banco di verdura di sua produzione. Teme per la terra dei contadini, per il loro sostentamento: «Questa corsa alle nocciole ha delle conseguenze. Chi coltivava già nocciole vicino a Caprarola adesso viene qui e compra terreni a prezzi fuori mercato perché tanto qui costano di meno. Così chi possiede la terra la venderà sempre di meno ai contadini del posto e aspetterà le offerte dei nocciolari». La coltivazione della nocciola si sta ampliando grazie anche ai prezzi di mercato favorevoli. La Ferrero infatti garantisce un prezzo minimo d’acquisto in periodi di ribasso a 1,94 euro al chilo (la media è 2,50 al chilo), un prezzo più vantaggioso rispetto a coltivazioni tradizionali come le sementi, vendute in media a 0,2 euro al chilo. Fino al 2018 i terreni dell’altopiano adiacenti al castello di San Quirico erano dati in affitto ai contadini del posto per l’agricoltura ciclica di grano e ortaggi. Oggi, invece, più di 700 ettari tra l’altopiano dell’Alfina e il lago di Bolsena sono stati trasformati in monocolture di nocciole.
QUESTA APPROPRIAZIONE DELLE TERRE «sta negando l’accesso alla terra arabile per i contadini stagionali e la sussistenza dei coltivatori viene messa a rischio» dice Margherita, anche lei contadina e attivista della Comunità, mentre prepara il suo stand di fialette di zafferano rosso essiccato. Secondo i componenti della Comunità rurale diffusa, l’agricoltura intensiva dei noccioleti non è in linea con l’agricoltura biologica praticata nell’Alfina, priva di macchinari e diserbanti. Piero della Crd ribadisce che «si sta sottraendo alle persone tutta una fetta di un’economia che non era da poco. Precari, avventizi, braccianti agricoli o i giovani che facevano la raccolta per alzare qualche cosa adesso cominciano a sparire». Conclude affermando: «Come immagine, può sembrar strano, ma viene quella della desertificazione».
QUESTO VA AD AGGIUNGERSI ALLA TENDENZA secondo cui i coltivatori di nocciole, per ridurre i costi di avvio dell’attività, prendono dalla Pac (Politica agricola comune) finanziamenti europei destinati alle coltivazioni biologiche, praticate dai contadini solo nei primi anni della pianta. Tuttavia, una volta divenuta produttiva, cambiano metodo e tornano a un’agricoltura convenzionale con prodotti chimici. «Abbiamo fatto un esposto alla Commissione Europea – continua Wallner – ma non abbiamo ricevuto risposta. Tutta questa situazione sembra una truffa, e chi ci rimette è il territorio e le persone del posto che vogliono fare un tipo di agricoltura sostenibile».
DA LONTANO SI VEDONO CAMPI DI NOCCIOLE che coprono le colline orvietane come una coperta a maglia larga, che lascia intravedere il suolo privo del manto erboso. Gli arbusti, dal tronco chiaro e con le leggere sfumature verdi che dona la primavera, si riconoscono dalla loro bassa statura: sono stati piantati pochi anni fa. Negli ultimi due anni, più di 400 ettari sono sorti all’interno del bacino idrico del lago di Bolsena. «Questa è un’aggressione ai territori», sostiene Gabriele Antoniella del cQs. «Vogliono costruire i noccioleti su dei bacini idrici importantissimi per migliaia di cittadini. Solo qui sull’Alfina hanno già messo 200 ettari sopra la fonte del Tione, cioè da dove viene l’acqua Panna». L’altopiano è un punto fondamentale per le riserve d’acqua che alimentano Bolsena da un lato, Orvieto dall’altro. C’è il timore che pesticidi e fitofarmaci usati nell’agricoltura intensiva possano filtrare nel terreno e deporsi nel sottostante bacino idrico, contaminandolo e provocando danni al suolo e alle persone.
QUI NELL’ORVIETANO E ATTORNO AL LAGO di Bolsena alcuni agricoltori hanno accettato il contratto con la Ferrero, adottando la monocultura, ma c’è anche chi pratica forme di agricoltura biologica, producendo cibo senza l’uso di macchinari e agenti chimici. Insieme, la Comunità rurale diffusa e il comitato Quattro strade stanno pensando di dar vita a un biodistretto, simile al Biodistretto della Via Amerina. Il progetto prevede la creazione di una rete di mutuo supporto tra agricoltori e istituzioni locali. «Vogliamo prendere accordi con i comuni – dice Wallner – affinché certe attività come le mense si riforniscano di cibo proveniente da coltivazioni biologiche certificate».
LE CERTIFICAZIONI SARANNO RILASCIATE a chi ha rispettato metodi di coltivazione a basso impatto ambientale che la comunità stessa valuterà. Si prevede infatti che un gruppo di agricoltori già certificato vada con i consumatori a ispezionare le nuove coltivazioni. Parte fondamentale di questo aspetto è dunque il rapporto tra produttore e consumatore. Secondo Gabriele Antoniella, «è un aspetto molto importante. La città ha perso il contatto con la campagna e la gente con il cibo, bisogna sensibilizzare le persone ad avere un consumo più ragionato». Francesco Annarumi è dello stesso avviso: «Non ci si può accontentare del cibo plastificato nei supermercati. Anche quella è una scelta. Con quell’azione si sceglie una strada invece di un’altra più sostenibile. E poi, noi mica campiamo a mangiare solo nocciole, mangiamo formaggio, verdure e tutto ciò che possiamo produrre e coltivare».
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