Ferraris, noi prestatori d’opera a nostra insaputa
Welfare digitale Né padroni della natura, come un virus ci dimostra, né schiavi della tecnica: l’ultimo saggio di Maurizio Ferraris ci invita a riformulare il rapporto tra capitale e lavoro: «Documanità», Laterza
Welfare digitale Né padroni della natura, come un virus ci dimostra, né schiavi della tecnica: l’ultimo saggio di Maurizio Ferraris ci invita a riformulare il rapporto tra capitale e lavoro: «Documanità», Laterza
A dispetto della scrittura a tratti scanzonata, l’ultimo saggio di Maurizio Ferraris, Documanità Filosofia del mondo nuovo (Laterza, pp. 440, € 24,00) è un’opera ponderosa che già nell’impianto rivela la sua spiccata vocazione sistematica. I quattro libri che lo compongono poggiano su una sequenza – registrazione, iterazione, alterazione, interruzione – riprodotta su varie scale di grandezza: ciascun libro è a sua volta suddiviso in quattro capitoli, e ciascun capitolo si articola in quattro paragrafi da leggere in successione oppure in serie, a zigzag, a ritroso o in ordine sparso, secondo le minuziose istruzioni per l’uso (con annessi schemi grafici) fornite dall’autore nelle pagine introduttive. Una sorta di tetragramma da permutare e combinare come i nomi dell’Eterno.
Qual è la base di tutte le cose? È l’isteresi, dice Ferraris, mutuando dalla fisica il termine per comprimervi le sue ricerche di una vita: la possibilità di tener traccia degli eventi, così come una pallina schiacciata mantiene per qualche secondo l’impronta delle dita. La permanenza del passato nel presente modella il mondo fin dalle origini, visto che anche l’universo è l’effetto che sopravvive alla causa che chiamiamo Big Bang. La sequenza è grosso modo questa.
Fantasie regressive
Uno: gli eventi lasciano strascichi materiali sotto forma di radiazioni cosmiche, colate laviche, catene montuose, stringhe di Dna, impronte, sbadigli e altri segni naturali. Ma anche amigdale scheggiate, incisioni rupestri, alfabeti, biblioteche, album fotografici, e tutti i documenti con cui tecnologie sempre più avanzate registrano gli effetti dell’agire umano. Due: le tracce si aggregano in sintagmi che si prestano alla ripetizione. Tre: a forza di reiterare si generano alterazioni, errori di copiatura, combinazioni inedite da cui emergono nuovi oggetti e invenzioni fortuite. Quattro: il processo si chiude con l’interruzione ultima che dà valore al tutto. Consapevoli della propria mortalità, gli umani si sforzano di attribuire senso – direzione e significato – alle sequenze che generano, opponendole tra loro, codificandole e motivandole come se rispondessero a fini che esulano dalle urgenze immediate del metabolismo.
Perché preoccuparsi dell’isteresi, a parte l’intrinseco fascino della teoria? «Tu abiti a Brooklyn e Brooklyn non si sta espandendo!» diceva la madre di Alvy in Io e Annie al figlio depresso. La cosmogonie sono robe da nerd alienati? Niente affatto, risponde Ferraris. Se non si formula una teoria del tutto si finisce per adottarne implicitamente una, magari sbagliata, come quella secondo cui l’uomo nascerebbe libero e si corromperebbe cammin facendo. Nulla di più fuorviante di questa fantasia regressiva recentemente tornata in auge nel discorso pubblico: non solo lo stato di natura è una finzione a cui non credeva neppure Rousseau, ma quelle che vengono descritte come le principali cause dei nostri mali attuali – Tecnologia, Capitale, Automazione e Consumo – sono i tratti costitutivi dell’ominazione (riconducibili in ultima istanza alla fortunata combinazione tra pollice opponibile e postura eretta: questa, però, è un’altra storia).
Siamo animali disadattati che necessitano di supplementi tecnici, i quali dischiudono nuove possibilità di azione, generando ulteriori bisogni che richiedono altri strumenti e così via. La tecnologia è capitalizzazione delle risorse finalizzate al consumo differito, secondo la cadenza quaternaria di cui sopra. Poiché non muoiono, gli strumenti non hanno obiettivi autonomi (dunque non comandano un bel niente), ma si limitano a soddisfare i nostri bisogni. Le macchine incorporano il lavoro morto, sollevandoci da gran parte della fatica fisica e mentale necessarie per vivere, posto che anche molte delle nostre prestazioni intellettuali fanno capo ad algoritmi che possono essere tranquillamente applicati senza venire compresi.
Problema: che ne sarà di noi quando la produzione graverà quasi esclusivamente sulle macchine e sui pochi umani incaricati di farle funzionare? Non è un quesito ozioso, alla luce della rivoluzione digitale in corso e delle sue ripercussioni sociali, a cominciare dalla rarefazione del lavoro. Secondo Ferraris non è il caso, tuttavia, di disperare o di ritenerci vittime di potenze maligne. Al contrario: «la nostra è l’epoca più vicina al comunismo realizzato di ogni precedente età del mondo». Non è un paradosso. Ferraris si dichiara sinceramente ottimista riguardo ai progressi della «documanità», l’umanità iperconnessa che deve solo imparare a padroneggiare lo strumento di cui, chissà perché, si crede serva. A tale scopo, deve innanzitutto capire qual è il proprio della rete, anziché farsi abbagliare dai «mille nomi di Visnù» – panopticon, deep web, fake news, eccetera – che ne oscurano l’attributo essenziale.
Prima di ogni altra cosa, il web è il più grande apparato di registrazione mai esistito. Non si limita a capitalizzare le tracce lasciate deliberatamente da utenti desiderosi di comunicare o fare bella mostra di sé, perché quella che chiamiamo infosfera non è che la punta emergente di una ben più sconfinata docusfera. Immenso archivio di dati e metadati che a nostra insaputa regaliamo ai gestori delle piattaforme ogni volta che prendiamo in mano un device, la docusfera trivella le nostre vite e ne estrae, più che le nostre idee (di cui non importa granché a nessuno), flussi ininterrotti di dati; dati di er sé insignificanti che gli algoritmi di profilazione trasformano in documenti di inestimabile valore.
Lo scambio è oggettivamente asimmetrico. A noi poche informazioni in chiaro, spesso inaffidabili e menzognere, più qualche marginale vantaggio pratico e ludico. A loro fantastilioni di documenti reali, perlopiù attendibilissimi in quanto generati e ceduti senza la minima cognizione di causa. Certo, fuori dal web quei documenti non valgono niente, anzi non esistono proprio: provate a pagare un caffè con i vostri dati biometrici, scherza Ferraris. Eppure l’immenso traffico in rete fa tutta la differenza e genera un’economia digitale ben più cospicua di quella industriale. È questa l’alterazione rilevante, il salto creativo, la quantità che diventa qualità: la capitalizzazione della biosfera per mezzo della docusfera.
Dal consumo al valore
Se l’isteresi in rete produce valore, allora ogni utente è un prestatore d’opera a sua insaputa. Purché indossi uno smartwatch, qualsiasi Homer Simpson steso sull’amaca sta contribuendo all’economia mondiale, molto più di quanto non faccia quando combina pasticci sul posto di lavoro. Ma allora non si vede perché i gestori delle piattaforme debbano essere gli unici beneficiari della sua mobilitazione.
Ribaltiamo dunque i termini. Se lavoro è tutto ciò che produce valore, perché non ammettere che anche il consumo in rete lo è, e come tale andrebbe remunerato con un webfare ricavato dai profitti delle piattaforme? Un sistema redistributivo su scala sovranazionale che, se ben gestito, oltre a sostenere gli esclusi e gli oppressi potrebbe dirottare enormi risorse nell’educazione, la più sofisticata tra le tecnologie, quella che permette di «produrre un’umanità che non si senta sottomessa o spaesata nel mondo che essa stessa ha creato». Inutile rimpiangere i lavori perduti, al di là del fatto che erano perlopiù abbrutenti, perché nessuno ce li ridarà più. Lasciamo homo faber nel capanno degli attrezzi»; in fondo non è stato che una contingenza nella storia dell’ominazione. Come i cacciatori-raccoglitori del Paleolitico e i cittadini dell’antica Atene (che al posto delle macchine avevano gli schiavi), in un futuro prossimo ci impegneremo solo nei mestieri non automatizzabili legati alla cura, all’educazione, alla politica, all’invenzione e allo sport, mentre dedicheremo il resto del tempo ai consumi materiali e culturali.
Realistiche profezie?
Non si diceva una volta che il lavoro nobilita l’uomo e che l’ozio è il padre dei vizi? Non secondo Ferraris, che semmai pregusta i dibattiti istruiti destinati a animare le nuove agorà. A condizione, beninteso, che per quanto esonerata da ogni processo produttivo l’umanità del futuro sia più interessata a discutere su come far fruttare il proprio capitale algoritmico che a fruirne in modo beatamente passivo. È una previsione realistica? Chi si farebbe carico di realizzare la profezia? Chissà se quello proposto da Documanità è lo scenario più desiderabile o attuabile di una governance alternativa, nell’era digitale. A Ferraris va riconosciuto il merito di avere messo definitivamente a fuoco i termini della questione.
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