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Ferrario e Arminio, il tempo sospeso

Ferrario e Arminio, il tempo sospeso

Torino Film Festival Immagini per lo più fisse, paralizzate, come quadri di Magritte, occhi su una realtà spesso silenziosa: «Nuovo cinema paralitico»

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 21 novembre 2020

Nuovo cinema paralitico è il nuovo film di Davide Ferrario, in programma al Torino Film Festival il 22 novembre online. Spiega così il titolo: «Un giorno a colazione Franco Arminio, che non ama il cinema perché lo costringe a stare seduto, scherzando su Nuovo cinema paradiso, ha parlato di un «nuovo cinema paralitico», in cui non succede niente. Staticità ed ironia, questo abbiamo messo nel film.» Infatti: immagini per lo più fisse, paralizzate, come quadri di Magritte, occhi su una realtà, spesso silenziosa, in un tempo sospeso da un COVID dell’anima, tra paesaggi incantevoli, o assurdi, svuotati ma mai inanimati, borghi spopolati, come direbbe il «paesologo» e poeta Arminio, la voce del film.

Come in altri film di Ferrario si tratta di un «Viaggio in Italia» particolare, «l’Italia non riuscita, l’Italia dell’ultimo banco» una perlustrazione in apparenza senza meta, anche se le didascalie indicano il nome del luogo, ma conoscerlo serve a poco, perché non si tratta di belle cartoline, ma di scorci desueti. Le immagini fisse restano sullo schermo, talvolta immobili, spesso spopolate, come il parco giochi colorato con brusio fuori campo, stimolando uno sguardo più curioso, perché «le cose piccole richiedono attenzione, la pura generosità dell’attenzione.» Lo sguardo non esce dallo schermo ma osserva una nuvola, un movimento della luce, il gioco di una architettura razionalista, una brughiera nebbiosa, una spiaggia livida e una tropicalizzata, statue con colombi immobili e bianchi come loro, i movimenti di persone in una palestra, di sera dai finestroni sulla strada.
Il sonoro non è mai un’eco ridondante delle immagini, ma mentre di solito nei film di Ferrario era un montaggio di citazioni letterarie e storiche, per un ascolto che integra, spiega e racconta la storia per immagini, in questo caso la voce non racconta ma lavora di suggestioni poetiche. «Dio non è morto. Dio ci ha licenziato. La poesia lavora per farci riassumere. La poesia è il nostro sindacato» legge infatti Arminio davanti alla facciata di una chiesa diroccata, all’inizio del film.

Arminio, che da sempre lotta contro lo spopolamento delle montagne (meridionali), per quei «paesini, relitti ad alta quota, monasteri dello sconforto» come la sua Bisaccia, nella quale è tornato a vivere, legge a qualcuno che non sa cosa aspettarsi, come il calabrese che espone su un’apecar i suoi prodotti, o nel silenzio del teatro sannita deserto, i suoi haiku, riflessioni filosofiche che sorprendono nella loro limpidezza.

Oltre ai paesi fantasma, a quelli abbandonati dagli emigranti o ricostruiti per modo di dire dopo il terremoto, la biblioteca dell’università di Camerino, i prefabbricati di Amatrice, la valle di Castelluccio che sembra la Mongolia, una ragazza di colore che cammina per le strade scalcinate e bianche di una Castelvetrano post-atomica: le immagini gli fanno dire «Il mondo si sta suicidando. I ricchi ci hanno messo la corda, i poveri il collo.»
Anche quando non c’è una poesia il brusio del fuori campo, il silenzio percorso dal cinguettio degli uccelli nella nebbia, oppure l’immagine sul portiere mentre la partita con i suoi suoni si svolge fuori campo o lo stadio vuoto mentre si sente una radiocronaca, questo sonoro anti-televisivo chiede a orecchie e occhi di fondersi in un montaggio mentale che crea un nuovo senso.

Sul finale un capitolo sulla morte, tra cimiteri avveniristici o bianchi di marmi geometrici (“La morte è la forma delle cose quando sono ferme e serene”) e un vecchio cinema distrutto, le sedie vuote come ora, seguito da un appello “per tornare insieme nella casa del mondo”, con campagne misteriose avvolte nella nebbia, un magnifico albero secolare dalle radici abbarbicate come artigli su un dirupo (è lo “storico locale” che sa tutto di quel luogo), un fiume, la galleria Burri con le sue geometrie astratte: non solo natura, quindi, ma anche cultura, per salvarci, e spiritualità in un eremo scavato nella roccia che sconfina in un bosco frondoso, con una cascatella-fonte miracolosa.

Silenzio e immobilità sembrano un antidoto all’ultimo lavoro di Ferrario nella fiction, una produzione internazionale girata a Malta, con Harvey Keitel e Malcom McDowell, sulla ribellione indipendentista dell’isola nel 1919, dal sintomatico titolo Just Noise, Solo rumore, post-produzione appena terminata, uscita non annunciata.

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