Ferguut, la quête cavalleresca di un giovane eroe stolto
Primo foglio del romanzo arturiano Ferguut, dal manoscritto conservato all’Università di Leida, in Olanda
Alias Domenica

Ferguut, la quête cavalleresca di un giovane eroe stolto

Testi medievali Romanzo arturiano nederlandese, «Ferguut» (ora nelle Edizioni dell’Orso) ha per protagonista una sorta di Perceval degradato: in un mondo basso, che rovescia il modello cortese
Pubblicato più di un anno faEdizione del 11 giugno 2023

Bertoldino, il figlio sciocco dell’astuto Bertoldo, si mette a covare le uova come se fosse una chioccia. Pinocchio, fedele agli insegnamenti del Gatto e della Volpe, è convinto che gli zecchini crescano sugli alberi. Gurdulù – nel Cavaliere inesistente di Calvino – nuota contento insieme alle anatre, come se fosse una di loro. Ancora, il giovane «che va in cerca della paura», nella fiaba dei Grimm: messo a montare la guardia a sette impiccati, in una notte fredda e ventosa, si preoccupa di disporli accanto al fuoco, per riscaldarli, poi li invita a non avvicinarsi troppo alle fiamme e, davanti al loro silenzio, spazientito, li riattacca alle forche. Un ventaglio di storie – evidenti i legami con il folklore – che hanno come protagonista un personaggio strano e bizzarro, uno stolto, un ingenuo, un idiota.

Per il Medioevo Chrétien de Troyes inventa, nel Conte du Graal, ed è una figura indimenticabile, il giovane Perceval: allevato dalla madre, lontano dal mondo, incontra per la prima volta dei cavalieri e li crede degli angeli, arrivato alla corte di Artù, avanza fino al cospetto del re senza scendere da cavallo. Cambierà, ma non del tutto, quando un vecchio e saggio cavaliere, Gornemanz, lo prenderà sotto le sue ali e gli insegnerà le regole della cortesia. Le opere di Chrétien hanno una grande fortuna europea, innumerevoli sono le riprese, i rifacimenti, che non sono pallide imitazioni ma spesso riscritture acute e sottili. È senz’altro il caso del Fergus di Guillaume Le Clerc, scritto nel primo quarto del XIII secolo, poi ripreso e variato, cinquant’anni dopo, nel Ferguut nederlandese di autore anonimo. Questo romanzo si può ora leggere in italiano, tradotto in modo preciso ed elegante: Ferguut Romanzo arturiano nederlandese, a cura di Davide Bertagnolli (Edizioni dell’Orso, con testo originale a fronte, pp. 410, € 35,00). Nell’Introduzione Bertagnolli analizza bene la particolarità del romanzo, un’opera brillante e per diversi aspetti originale, inserendolo anche nel quadro della letteratura nederlandese del XIII secolo, ricca di capolavori come le storie della volpe del Van den vos Reynaerde o le avventure di Galvano del Roman van Walewein, purtroppo ancora inaccessibili al lettore italiano (del Walevein c’è però una bella traduzione in inglese, New York-London, 1992).

Il modello, riconoscibilissimo, di Ferguut è il Perceval di Chrétien, mediato attraverso il Fergus. Ma la storia è subito calata in un mondo più basso, l’eroe non è di nobile stirpe, ma è figlio di contadini: «portava una tunica di pelle di vitello / lunga fino al ginocchio / e due stivali, stretti intorno alle cosce». La fatale apparizione dei cavalieri non è nel segno del meraviglioso e dello stupore, come in Chrétien, ma di una animalesca paura: «Il ragazzo li vide, non rise affatto, / aveva molta paura; / non sapeva dove fuggire. / Temeva volessero portarlo via; / Non osò muovere un dito. / Restò immobile e sudò come un maiale, / fino a quando la compagnia non passò oltre». Il ragazzo torna a casa, non saluta nemmeno il padre: «Aveva con sé il vomere dell’aratro, / che lanciò a terra. Non gli importava / più nulla di andare con l’aratro». Per la vestizione gli viene portato un vecchio scudo e una lancia che era stata appesa nel fumo per sette anni, invece della spada ha solo il suo giavellotto. «Potete ben capire che era uno stolto. (Gi moget wel weten, hi was sot)». Stolto è Ferguut all’inizio della storia, e stolto si rivelerà nel corso della sua quête cavalleresca. Una delle sue imprese più memorabili è il duello con il temibile signore della Montagna Nera, ma prima deve affrontare un guerriero gigantesco che gli sbarra la strada. Lo colpisce con forza, ed è stupito che il gigante non reagisca, lo insulta e moltiplica i colpi, ma il gigante è sempre immobile e muto, finalmente Ferguut capisce che ha di fronte un automa: «Quel villano era fatto / di metallo».

L’avventura decisiva, per il nostro eroe e per tutta l’architettura del romanzo, è l’incontro mancato con l’amore. Ferguut è ospitato, in un bel castello, da un nobile cavaliere e dalla sua bellissima nipote, Galiene, che si innamora perdutamente di lui. Ma Ferguut è un «étourdi», è distratto, è assente, e la cena si svolge in una atmosfera surreale: «Il cavaliere non le rivolse mai parola: / così sedettero e tacquero entrambi, / tanto che in quel lasso di tempo uno / avrebbe potuto percorrere un buon miglio. / Lei non osava parlare e nemmeno lui, / quindi non ci fu alcuna conversazione». Nella notte Galiene è tutta, tra gioia e angoscia, in amorosi pensieri e dopo molta esitazione decide di svegliare dolcemente il cavaliere e di dirgli quello che prova. E glielo dice con il raffinato linguaggio dell’amore cortese: «Ho perso del tutto il mio cuore, / che è venuto qui da voi. / Dove si trova, mio amato? Mostratemelo, caro, / datemi il mio cuore e farete bene». «Al mine herte hebbie verloren …» L’«étourdi» le risponde con queste parole: «Mi prendete in giro, / fanciulla? Non ho visto il vostro cuore, / non è venuto qui. Non sto dicendo / che non ve lo restituirei se lo avessi. / Non l’ho visto, fanciulla, andatevene!». Pensa solo alla sfida che lo attende, quella del signore della Montagna Nera. Galiene, affranta, torna nel suo letto, e la mattina, al sorgere del sole, senza salutare nessuno, lascia la casa, vuole solo fuggire.

Una volta compreso il suo errore, Ferguut cerca affannosamente e disperatamente Galiene, che ama, senza riuscire a trovarla. Ma è sempre un po’ sbadato, o sfortunato. A Rikenstene combatte valorosamente per salvare una dama che respinge le pretese di un re che vorrebbe sposarla con la violenza. Vince, ma non si presenta alla dama, anche se apprende che si chiama Galiene (ha capito o no, che è la sua Galiene?) e si allontana a gran carriera. Ma arriva l’inevitabile Happy End. Galiene ama ancora Ferguut, ma – «Il cuore di una donna non è d’acciaio» – si è stancata di aspettarlo e indice un grande torneo: sposerà il cavaliere che risulterà vincitore. Vince su tutti, clamorosamente, il cavaliere dallo Scudo Bianco, che sposerà la dama, e che non è altri che Ferguut.

Come si vede, il romanzo è costruito su inversioni e rovesciamenti di modelli cortesi. Così come il francese Fergus, ci suggerisce Bertagnolli, «si configura come una raffinata parodia, quello che potremmo definire un colto esercizio letterario, in cui l’autore gioca con l’orizzonte d’attesa del proprio pubblico, partendo da situazioni evidentemente ben conosciute e poi modificate fino a creare un effetto straniante o divertente». L’autore scava a fondo sull’«étourderie» del personaggio – è questo il filo rosso di tutto il romanzo – di cui lui stesso è lucidamente consapevole: «Santo Dio! Per natura non mi è toccato / altro che stupidità / e non faccio altro che dimostrarlo. / La natura tira più di cento buoi. / Perché viaggio tanto con l’immaginazione?».

Avvolto e come prigioniero delle sue distrazioni, e ingenuità, e fantasticherie, Ferguut è immerso anche nella solitudine. Come quando, in una splendida scena, esce dalla corte di Artù e cammina per la città: «Nessuno gli rivolse la parola / né gli disse: “Vieni a stare qua”. / Anche lui non chiese ospitalità a nessuno / e passò per le strade silenzioso / come un topo, con la sua lancia tenuta alta. / Venne poi giù un grande acquazzone / che lo bagnò fino al midollo. / Proseguì come un idiota, / completamente zuppo d’acqua. / Alla fine prese la sua lancia / e la piantò sotto un vecchio albero».

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