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Ferguson, i fantasmi della marcia di Selma

Ferguson, i fantasmi della marcia di SelmaNew York, protesta pro-Garner a Times Square – Reuters

Intervista Incontro con Ava Duvernay, regista del film "Selma": «50 anni dopo, la violenza della polizia contro la protesta del 1965 voluta da Martin Luther King, è lo specchio dell'America di oggi»

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 5 dicembre 2014
Luca CeladaNEW YORK

Il mercoledì pomeriggio piovoso di New York è stato interrotto dal bollettino che annunciava la decisione di un Gran giurì di prosciogliere il poliziotto che a luglio aveva fermato Eric Garner, un venditore abusivo di sigarette a Staten Island. Dopo una colluttazione, Garner era morto soffocato dall’agente Daniel Pantaleo che lo stringeva alla gola. La notizia ha provocato proteste spontanee che si sono susseguite per tutta la giornata in varie parti di Manhattan.

Così sempre nel pomeriggio centinaia manifestanti hanno tentato di interrompere la cerimonia dell’inaugurazione dell’albero di natale a Rockefeller Center ma sono stati respinti dalla polizia che ha blindato l’intera zona con un imponente dispiegamento di forze. Centinaia di persone si sono allora dirette a Grand Central Station dove hanno inscenato un sit-in bloccando tutta la stazione.

Altri gruppi hanno marciato su Times Square bloccando Broadway e intasando il traffico per ore. Stessa situazione anche sulla tangenziale Fdr bloccata da manifestanti.

Le proteste sono proseguite fino alla mezzanotte nella zona di Harlem e la polizia ha effettuato decine di arresti.

Il caso naturalmente ha rievocato la decisione di Ferguson che dieci giorni fa aveva infiammato l’America e l’assoluzione preventiva dell’agente è stata solo l’ultima della lunga, monotona litania di casi analoghi che confermano l’immunità di fatto di cui godono gli agenti nell’omicidio di civili, noto con l’eufemismo di «justifiable homicide». Le morti violente causate dalla polizia sono un’epidemia – e non è solo una parola ad effetto, visto che i dati a riguardo vengono compilati tra l’altro dal Cdc – il centro di controllo epidemiologico di Atlanta. Non c’è dunque molto di nuovo nella vicenda di mercoledì né, se è per questo, in quella di Ferguson, perché si tratta semplicemente degli ultimi capitoli della lunga esperienza nera in America, scene di un film già visto cento volte.

La «malattia» segreta

La novità è semmai che dopo Ferguson la «malattia» segreta delle polizia americana – la «crisi nazionale» come l’ha definita il reverendo Al Sharpton ieri , il giorno del funerale di Tamir Rice, il dodicenne ucciso dall polizia di Cleveland – è emersa dall’ombra nella sua tragica dimensione grazie in gran parte alla mobilitazione nazionale di protesta. Ieri addirittura il Wall Street Journal ha pubblicato un’indagine che rivela come centinaia di omicidi «giustificati» per mano della polizia non vengono mai nemmeno registrati.

Come abbiamo già segnalato su queste pagine, non esistono infatti statistiche attendibili in merito.

I dati dovrebbero teoricamente venire compilati dall’Fbi ma l’inchiesta del Wsj rivela che spesso i singolo dipartimenti di polizia omettono di riferirli. Il quotidiano ha contattato direttamente 105 polizie locali trovando che dal 2007-2012 quei dipartimenti hanno registrato 1825 morti violente provocate dai propri agenti, vale a dire 365 morti all’anno. Sono numeri incompleti che consentono di estrapolare un totale effettivo di almeno il doppio, dato che i dipartimenti di polizia in America sono oltre 700. La differenza è che ora questi sono numeri di cui si parla.

L’America post-Ferguson è una nazione che sotto la prima «presidenza afroamericana» confronta l’amara ironia di un momento di massima tensione razziale, la più alta degli ultimi decenni. La convulsione di Ferguson ha disilluso proprio durante il mandato di Obama, caratterizzato dal compiacimento «post-razziale», e messo nuovamente il paese davanti ai fantasmi dolorosi della propria storia.

7 marzo 1965, il ciclo degli eventi

Non è quindi casuale che sabato scorso alcuni giocatori dei St. Louis Rams siano entrati in campo con le mani alzate per ricordare il gesto di Michael Brown prima di venire ucciso dall’agente Wilson. L’immagine degli atleti neri con le mani in aria ha inevitabilmente rievocato i pugni chiusi di John Carlos e Tommie Smith alle olimpiadi del Messico nel 1968.

Quanto gli eventi si ripropongano oggi in modo specularmente ciclico è evidenziato ora da un film di prossima uscita. Selma di Ava Duvernay ripercorre la campagna di resistenza civile organizzata nella città dell’Alabama da Martin Luther King il 7 marzo del 1965, poco dopo aver ritirato il Nobel per la pace.

Un periodo nel quale King con Andrew Young, Ralph Abernathy, John Lewis e la sua Southern Christian Leadership Conference, organizzò una serie di azioni per rivendicare il diritto di voto che in Alabama e negli altri stati segregazionisti del sud veniva sistematicamente negato alle maggioranze nere. Quegli eventi furono caratterizzati a Selma dalla violenta reazione della polizia locale e delle milizie razziste che attaccarono ferocemente i manifestanti sul famigerato ponte Edmund Pettus, un copione replicato quasi esattamente 50 anni dopo dalla polizia di Ferguson. Non è quindi un caso che sabato scorso 250 manifestanti abbiano lasciato il sobborgo di St Louis per dirigersi a Jefferson City, la capitale del Missouri a 200 km di distanza.

Il «journey for justice» si rifà esplicitamente alla marcia da Selma a Montgomery e come allora il tragitto culminerà davanti ad uno state capitol per chiedere la riforma della polizia e la fine della discriminazione contro i neri.

«Dedicato a Ferguson»

Ave Dunarway
Ave Duvernay

Duvernay, afroamericana originaria proprio di Selma, ha dedicato il film a Ferguson dichiarando che non poteva esserci momento migliore per rievocare quei fatti di 50 anni fa. A Selma la violenza istituzionale contro i manifestanti culminò nell’uccisione del giovane afroamericano disarmato Jimmy Lee Jackson. La sua morte galvanizzò il movimento che culminò nella marcia su Montgomery e nell’impeto nazionale che obbligò di li a pochi mesi Lyndon Johnson a firmare il voting rights act.

Visto oggi si tratta però di un anniversario amaro come ha sottolineato Duvernay quando gli abbiamo parlato giovedì 4 a New York.

«È un momento difficile perché solo l’anno scorso la corte suprema ha abrogato la section 5 (l’articolo centrale del voting rights act che impediva agli stati di introdurre limiti all’accesso ai seggi senza previo vaglio federale, ndr). Molte delle conquiste ottenute da King negli anni 60 oggi sono minacciate. E non coincidentalmente sulle nostre strade assistiamo ad uccisioni a ripetizione per le quali nessuno viene mai rinviato a giudizio. Sono fatti che ti fanno capire quanto il progresso possa essere ribaltato e forse un problema è il compiacimento, l’idea che tutto è stato messo a posto 50 anni fa. È chiaro invece che occorre oggi più che mai tenere viva la discussione».

La non-violenza sovversiva

Lungi dall’agiografia il film è una lucida rilettura della teoria e pratica radicale della protesta non violenta come sistematico strumento di sovversione e progresso politico.

«Siamo qui per dare fastidio, disturbare la pace e mettere la gente davanti alle proprie responsabilità», dice King, interpretato ad arte dall’attore britannico-nigeriano David Oyelowo, in una scena del film. In un’ altra, rivolto ad un giovane militante di Sncc (Student nonviolent coordinating committee) che contesta i suoi metodi, spiega: «La nostra strategia è dimostrare e negoziare capitalizzando sugli errori dell’opposizione». Essendo ben certi che gli «errori» di razzisti e polizia accadano il più possibile davanti alle telecamere dei Tg.

È una lezione da ristudiare oggi? «Molto probabilmente sì», ci ha detto Duvernay , «trovo assolutamente essenziale conoscere il processo dell’antagonismo politico. Nel film volevo mostrare come King diede una struttura alla contestazione di formazioni giovanili come Sncc». Anche oggi c’è una straordinaria energia che proviene dai giovani, ma occorre anche imparare la disciplina politica». Meticolosamente basato su documenti storici, Selma mostra quanto lavoro, quanti anni di mobilitazione di base furono necessari per ottenere allora risultati tutt’altro che scontati, a partire dalla collaborazione del presidente Johnson, che la pressione del movimento indusse solo all’ultimo minuto ad appoggiare la riforma sul voto.

L’ultimo minuto della Casa bianca

Anche questa dinamica è rispecchiata dall’attuale inquilino della Casa bianca. Solo questa settimana dopo un silenzio sconcertante Obama ha infine convocato ministri leader e esperti per costituire una task force sulla brutalità della polizia col compito di individuare eventuali riforme. Fra le prime proposte di Obama: limiti alla militarizzazione dei dipartimenti di polizia cui fino a oggi sono state destinati armamenti militari rottamati dal Pentagono.

Un’altra proposta riguarda l’impiego di telecamere indossabili per monitorare le azioni degli agenti. E quando Eric Holder ministro di giustizia dimissionario ha annunciato un prossimo programma per eliminare il «profiling» – la discriminazione dei neri da parte della polizia – ha scelto per farlo la Ebenezer Baptist, la chiesa di Atlanta dove predicava proprio King.

«Ferguson è lo specchio del passato e Selma riflette i fatti di oggi». Ha detto a riguardo Duvarney. «Stiamo vivendo una sorta di triste distorsione spaziotemporale ed è ora di guardare bene dritto in quello specchio». Intanto mentre New York veniva paralizzata dalle proteste, Al Sharpton rilanciava il movimento nazionale con un altro «remake» di Martin Luther King: una Marcia su Washington indetta sabato 13 dicembre, tra una settimana.

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